La differenza tra “Pace” e “Shalom” – Parashat Nasò

Rav Eliahu Birnbaum

“Che Dio volga su di te lo sguardo e ti conceda shalom.” Questa è la benedizione che la nostra parashà mette sulla bocca dei cohanim, i sacerdoti, per tutto Israele.

“Shalom” non ha lo stesso significato di pace. Pace è la negazione della guerra, è uno stato di non violenza. Shalom, invece, proviene da “shalem”, da “shelemut”, che significano completezza ed integrità. Shalom, per essere tale, presuppone uno stato di tranquillità, sostegno, quiete, calma, concordia, armonia, amicizia. Il concetto di shalom lascia la sua manifestazione visibile nella realtà congiunturale, mentre pone le proprie radici più nel profondo, nel mondo dei sentimenti e delle attitudini vitali dell’uomo.

Il Talmud ci insegna che “il mondo si base su tre pilastri: la giustizia, la verità e lo shalom” e che Dio “creò il mondo affinché esistesse shalom tra gli uomini.” Colonna e fine dell’universo, lo shalom, è un referente cruciale nella vita ebraica.

La sfida più importante e difficile dello shalom è costituita dal suo stabilirsi all’interno della casa. La Torà permette il compimento di molte trasgressioni se queste valgono il prezzo dello shalom in famiglia, dato che nello shalom familiare si abbeverano forme più ampie di pace e di integrità.

L’inclinazione naturale dell’uomo suole portarlo all’esercizio della violenza: la necessità di conquistare, dominare, controllare, sono istinti umani che per il bene della pace dobbiamo trascendere e dominare. Di conseguenza è necessario raggiungere prima di tutto uno stato di pace interiore, per poterlo proiettare all’interno del nucleo familiare e solo allora, con la forza combinata di una collettività che ha una vocazione di armonia, potremo portare il nostro contributo allo shalom di tutta la società.

Per partecipare alla costruzione dello shalom, sia del proprio che di quello collettivo, si deve meritare “che Dio volga su di te lo sguardo con misericordia”, come recita la benedizione dei cohanim in questa nostra parashà. Se si vuole ottenere shalom, è necessario osservare, attendere e tendere verso il prossimo. Per quanto fugace, shalom è tanto vicino se lo si vuole ottenere nei momenti felici di ogni giorno, nella quotidianità della vita familiare, mentre è tanto lontano se lo si vive come utopia nelle realtà complesse e conflittuali: è un dilemma singolare la cui soluzione non si trova in nessun luogo al di fuori di noi stessi.

A volte dal lamento nasce il problema – Parashat Beaalotecha

Rav Eliahu Birnbaum

Questa parashà ci mostra il popolo di Israele che esperimenta diverse frustrazioni, a causa delle quali protesta e si lamenta davanti a Dio. In un uno di questi casi il popolo vive un senso di “vuoto” senza che vi sia alcun motivo particolare. E’ la percezione di tale vuoto che provoca un lamento che è fine a se stesso. La Torà ci racconta, in questo caso, che Dio reagisce incendiando parte dell’accampamento. L’altro caso è ben differente. Il popolo vive una necessità concreta e reclama: “Chi ci darà carne per mangiare?…Ci manca il pesce…”. Non è che Il popolo abbia fame, perché con la manna riesce a gustare tutti i sapori che desidera, ma si sente stufo di mangiare sempre la stessa cosa. Di fronte alla lamentela per una mancanza concreta, indipendentemente dalla sua validità, Dio soddisfa la richiesta del popolo e gli invia carne da mangiare.

Questi due casi sono una porta che si apre, attraverso cui comprendiamo le circostanze nelle quali è valido reclamare. La Torà non si oppone all’uomo che si lamenta, che critica e reclama, purché abbia una ragione specifica e concreta per farlo. In varie occasioni il popolo di Israele si è lamentato davanti a Dio ed Egli ha accettato le sue lamentale. La Torà ci fa notare che anche Abramo si lamentò di fronte al Creatore, così come, più volte, si lamentò lo stesso Moshé.

La situazione acquisisce una diversa valenza e diviene problematica quando ci si lamenta a vuoto, senza un motivo apparente, quando ci si lamenta e si piange senza un perché. A volte ci si lamenta idealizzando le situazioni, alienandosi dalla realtà. Non si è coscienti di ciò che accade effettivamente intorno a sé, si chiudono gli occhi e, con essi, si chiude anche la possibilità di comprendere le ragioni della propria lamentela. In questo modo, l’ambiente negativo, lontano da essere causa di tristezza e di lamentela, risulta essere la sua conseguenza.

La vita nel deserto era sicuramente passiva e noiosa. La stessa noia può essere stata, come spesso accade, la vera causa dei reclami e delle lamentele. Nel corso del suo viaggio verso la libertà, verso l’indipendenza come nazione, il popolo di Israele avverte una nostalgia per l’ “Egitto”. Il paese della schiavitù sembra trasformarsi, nella sua memoria, in una colonia di vacanze. Il popolo lamenta la mancanza del pesce che mangiava in Egitto. In proposito Rashi osserva con ironia: “La paglia per mattoni non la ricevevano gratis e dovevano raccoglierla da soli, mentre il pesce si?” Questo è l’altro Egitto che adesso viene ricordato. Nella noia, la memoria è totalmente distorta che il passato viene idealizzato. E’ una situazione che si è ripetuta varie volte nella storia recente del popolo ebraico.

Nel primo caso riportato dalla Torà, quando il lamento non aveva alcun motivo, Moshé si comporta con diplomazia: semplicemente non reagisce. Non avendo nulla da rispondere, non avendo nulla di concreto da dire, osserva silenziosamente il corso degli avvenimenti ed aspetta. Nel secondo caso, al contrario, Moshé è cosciente che la lamentela si riferisce ad una necessità concreta e sa bene che il soddisfarla è al di là delle sue capacità. In questo momento sì, avendo qualcosa di concreto da rispondere, Moshé affronta il problema, comprende la necessità e patisce di non poterla soddisfare. E’ frustrato da tale incapacità e cerca l’appoggio in Dio per affrontare la situazione.

Dio a sua volta si relazione con la richiesta di carne inviandone al popolo molta più di quanta ne fosse necessaria, facendo sì che ne faccia indigestione. E’ un ulteriore insegnamento: a volte si è insoddisfatti anche se immersi nell’abbondanza. La soddisfazione sembra non dipendere tanto da ciò che si possiede, quanto dalle proprie ambizioni e dalla propria armonia interiore.

Pareri soggettivi per un valore oggettivo – Shelach Lecha

Rav Eliahu Birnbaum

In questa parashà vengono definiti i successivi quaranta anni del popolo di Israele nel deserto. Durante gli eventi nel deserto viene alla luce molto chiaramente il criterio che definisce chi sarà capace di arrivare a vivere in libertà e chi non lo sarà. Di conseguenza è proprio in questa parashà che si determina il futuro di tutta una generazione: chi morirà nel deserto e chi invece giungerà a vivere nella terra di Israele.

Moshè mettendo in pratica le istruzioni di Dio, invia una delegazione di dodici uomini a scoprire le caratteristiche della Terra di Israele prima che vi giunga tutto il popolo. Si tratta dei capi delle dodici tribù che non partono per proprio volontà, ma che sono inviati. Non si tratta di spie come quelle che verranno inviate in seguito da Yeoshua (Giosuè). Questa è una delegazione diplomatica che non si nasconde e che dovrà riportare più tardi informazioni di carattere militare.

Gli inviati devono giungere alla terra e osservarne le caratteristiche, devono vedere le sue città, gli uomini che le abitano, di quali armi dispongono, per poter poi informare Moshé e tutto il popolo di quello che hanno visto. I delegati portano a termine la loro missione: al loro ritorno consegnano le loro informazioni, chiare ed obbiettive, senza alcuna distorsione. L’informazione è positiva.

La crisi nasce quando gli informatori eccedono rispetto alla missione che era stata loro affidata e che consisteva nel rilevare e riportare le caratteristiche della terra destinata al popolo di Israele. Dopo aver presentato in maniera unanime una informazione positiva, cominciano individualmente ad inserire proprie conclusioni rispetto alle realtà che hanno visto. Non mettono in dubbio il valore della terra, bensì la possibilità del popolo di Israele di conquistarla. In definitiva entra in gioco la soggettività di ciascuno. A questo punto la differenza rispetto all’informazione iniziale è importante: solo due rimangono ottimisti, contro i dieci che sostengono che l’impresa sia impossibile da portare a termine. Ma allora perché Moshé ha inviato degli uomini per esplorare la terra? Quando Abramo emigrò per ordine di Dio, osservò il comandamento di dirigersi verso “la terra che ti mostrerò” senza sapere dove stesse andando, camminò in nome di un ideale oggettivo supportato dalla soggettività della sua fede. In questo momento che il popolo di Israele non aveva alternative, perché avrebbe dovuto conoscere in maniera preventiva la terra che gli era stata destinata? La risposta è che Moshé cercò di trasformare l’evento compulsivo in oggetto di desiderio.

Certamente il popolo di Israele non aveva nessuna altra alternativa se non quella di dirigersi verso la terra promessa. Dovevano dirigersi verso di essa per obbligo. Moshé sperava che un informazione positiva da parte dei suoi inviati avrebbe motivato l’intero popolo e gli avrebbe fatto interiorizzare la sua volontà ed il suo desiderio di azione. Di fronte ai dubbi dei delegati ed al pessimismo di dieci tra di essi, il popolo reagisce con disperazione, assume un approccio fatalista e senza speranza e si arrende ancor prima di cominciare il suo compito.

Dio, alla fine, si infuria contro il suo popolo: “Non gli ha già dato sufficienti dimostrazioni della Sua tutela e della Sua protezione?” Il popolo, una volta ancora, reagisce mettendo in discussione la fede. Dio, rendendosi conto di come il problema affondi nella personalità degli uomini, nella loro stessa mentalità di esseri sottomessi, giunge alla conclusione che tutti coloro che hanno perso la speranza, non potranno diventare uomini liberi. Dio propone a Moshé di distruggere tutto questo popolo e di crearne un altro partendo dalla sua discendenza, ma alla fine opta per una soluzione che non coinvolge la totalità del popolo di Israele ma solo le persone psicologicamente prive della possibilità di giungere alla libertà: “la generazione del deserto”, la generazione di coloro che furono schiavi e conservano la condizione di pessimismo e di assenza di fede, non entrerà nella terra di Israele. Questa conclusione allude al modo in cui il sistema di riferimento soggettivo di ciascuno ne condizioni la percezione. Ognuno può vedere la stessa cosa e percepirla in maniera differente, in base alle esperienze vissute ed a ciò che ha visto in precedenza. I delegati dimostratisi pessimisti hanno probabilmente avuto due timori diversi: dal punto di vista spirituale, forse hanno avuto timore che il bisogno di lottare e di lavorare nella terra di Israele avrebbe attentato alla vita religiosa, alla santità che il popolo ebraico aveva acquisito nel deserto, dove nessuno doveva fare nulla per sopravvivere; dal punto di vista materiale hanno forse temuto che il popolo di Israele non avesse le forze necessarie per vincere una guerra di conquista.

A differenza di essi, Yeoshua Bin Nun e Calev Ben Yefunè, i due delegati che avevano parlato in modo positivo, non dimenticarono nemmeno per un momento che la vita di santità diventa realmente tale quando l’uomo riesce a superare la quotidianità del lavoro e della lotta per la vita. Con una visione pragmatica, coscienti della protezione che Dio ha esercitato sul popolo lungo tutto il cammino compiuto, essi mantennero la fede nel fatto che le sfide future sarebbero state le certificazioni che tutto ciò che era accaduto aveva una finalità valida e degna di essere trasformata in realtà.

La solitudine dell’uomo di fede – Parashat Balak

Rav Eliahu Birnbaum

In questa parashà incontriamo Balak Ben Tzippor, re di Moav, che teme l’avanzata dei figli di Israele verso le sue terre, ma sa che è aiutato da una forza magica emanata dalla volontà di Dio contro la quale egli non può lottare e cerca di opporre magia a magia.

Chiama quindi Bilam ben Beor, che il midrash definisce come Moshé “il maggior profeta” e gli chiede di maledire Israele e di rompere le difese magiche che Dio gli ha fornito, per poter così vincere la guerra che si avvicina. Bilam, che è un vero profeta, anche se legato al mondo dell’idolatria, sa che la sua magia non avrà nessuna forza se non riceve l’assenso di Dio. Lo consulta ed Egli pone sulla sua bocca le parole che dovrà pronunciare.

Per molte volte Bilam benedice il popolo di Israele, di fronte alla perplessità e all’impotenza di Balak. Bilam osserva l’accampamento di Israele da una montagna ed ha una visione spaziale e temporale del popolo che dovrebbe maledire che lo costringe a dargli una benedizione: “Come sono belle le tue tende (case) Yaakov e le tue dimore Israel!” esclama. Viste dalla terra di Moav, le case, le famiglie di Israele, l’unità e la armonia che vi regnano, suggeriscono a Bilam una tale espressione di ammirazione.

Nota: con questa esclamazione detta da un non ebreo cominciano le preghiere mattutine degli ebrei di oggi.

Bilam osserva la solidarietà e il senso di reciproca responsabilità che regnano nelle famiglie di Israele: caratteristiche che, da sempre – e ancor oggi – tutti i popoli hanno riconosciuto agli ebrei ed hanno costituito oggetto di speciale ammirazione.

In seguito, in un’altra delle sue benedizioni Bilam si riferisce ad Israele dicendo: “Un popolo che vivrà nella sua solitudine e che non sarà considerato dalle altre nazioni.” Questa solitudine alla quale si riferisce Bilam è stata una costante della storia del popolo ebraico e su di essa pendono numerosi interrogativi. Questa solitudine è una benedizione o una maledizione? È causata dallo stesso popolo di Israele o dal resto delle nazioni? Si tratta di una opzione ideologica o di una realtà che ha cause storiche e sociali? Probabilmente la risposta ebraica a queste domande si trova in una sintesi tra le due opzioni.

Il prof. Shmuel Etinguer spiega che la solitudine ebraica e la stessa esistenza del popolo di Israele sono il frutto di un sistema di forze contrapposte che, viste in prospettiva, tendono costantemente all’equilibrio. Da un lato sono forze centrifughe, attraverso le quali il popolo di Israele prova a rompere la sua solitudine e ad integrarsi nelle società che lo circondano; da un altro lato sono forze centripete attraverso le quali la società esterna e il peso della propria tradizione spingono gli ebrei a ripiegare e a dover contare su se stessi.

La solitudine ebraica, dunque, emerge da una identità duale che condiziona il rapporto dell’ebreo con la società. In questa nostra epoca in cui l’ebreo sembra integrarsi progressivamente nelle società in cui vive, si può porre rimedio a tale solitudine, ponendo in atto quella “solidarietà ebraica”, che proietta il rapporto individuo-società in una dimensione individuale di elevato valore e peculiarità.

Come si raggiunge la giustizia? – Paraszat Devarim

Rav Eliahu Birnbaum

Con questa parashà comincia il quinto ed ultimo libro della Torà. Preparando il suo distacco, Moshé offre l’eredità spirituale che lascerà al suo popolo. “Ed in questa occasione ordinerete ai vostri giudici: Vi occuperete dei vostri fratelli e giudicherete con rettitudine tra l’uomo ed il suo fratello e lo straniero che abiterà con esso. Per i giudici non ci sarà nessuna differenza tra le persone, giudicheranno sia l’umile che il potente. Non temeranno nulla perché il giudizio è di Dio.” La strutture che dovranno dirigere la vita del popolo di Israele sono sintetizzate in questo modo da Moshé.

La giustizia – impariamo dalle parole di Moshé – non è garantita dalla sola esistenza di avvocati e giuristi, ancor meno dalle abilità retoriche. Ma al contrario la giustizia nasce e si sviluppa dal mero fatto che un giudice si “occupi” e si relazioni con la realtà del suo prossimo e interpreti la legge in base alla realtà concreta che deve affrontare.

In ebraico la parola lehaazin, occuparsi, nutrire, nasce dalla stessa radice di equilibrio, “izun” ed ascolto “ozen”. Da cui comprendiamo che l’equilibrio fisico sta nell’ascolto; d’altro canto avere una bocca e due orecchie significa che un atteggiamento equilibrato nell’uomo è contrassegnato dalla necessità di ascoltare, comprendere, occuparsi, il doppio rispetto a ciò che si dice.

A questo punto sorgono alcune osservazioni. Rashi avverte che “l’attenzione” in quanto premessa fondamentale per la giustizia, si coniuga solamente al tempo presente. Aver prestato attenzione in passato, “ti ho già ascoltato”, o promettere l’attenzione in futuro, non sono varianti dello stesso concetto: l’attenzione comporta aver coscienza che le necessità del prossimo cambiano permanentemente. L’attenzione deve essere un processo ininterrotto, definito dalla necessità del prossimo e non dal tempo che fa comodo a noi.

“Vi occuperete dei vostri fratelli” inizia cosi a parlare Moshé. Per poter realmente occuparsi del prossimo deve esistere un legame di fratellanza che ci unisce gli uni agli altri. Il conflitto tra le persone ha una sua base, secondo questa concezione, nella distanza biologica, culturale, ideologica etc., che non permette di vedere nel prossimo un fratello e impedisce di immedesimarsi nella realtà che ci circonda.

Continuando, Moshé prescrive che uguale attenzione debba essere prestata a tutti gli uomini, senza distinzione di nessun tipo: “all’umile ed al potente”; tutti devono essere ascoltati ugualmente. Da questa precisazione il Talmud trae la regola “Dina prutà kedin meàh”, il giudizio per uno vale come il giudizio per cento: ogni caso è importante per la persona che lo presenta, indipendentemente dal valore oggettivo di ciò di cui si sta discutendo.

Vediamo come, in ebraico, l’attenzione sia legata all’ascolto. La giustizia si realizza ascoltando il prossimo ancor più sulla base di ciò che si vede. Le parole, la voce di una persona, provengono dall’anima e l’ apparenza esterna non riflette obbligatoriamente la realtà.

Moshé conclude la sua spiegazione: “Non temano nulla, perché il giudizio è di Dio.” Se l’atto della giustizia si realizza camminando nelle giuste strade, chiunque giudica non deve temere. Il timore e l’insicurezza nel giudizio derivano dalla mancanza di informazioni, dalla possibilità di non aver ascoltato, di non essersi occupati, quanto sarebbe stato necessario. Le leggi della Torà provengono da Dio e si applicano agli uomini. Sono segni che si adattano ad ogni esistenza, le cui possibilità di esegesi ed applicazione non sfuggono a nessuna realtà. Quando un uomo giudica in accordo alle leggi della Torà, sta applicando la morale Divina, in definitiva si responsabilizza come artefice della giustizia di Dio sopra la terra.

Ogni processo ha bisogno di un leader diverso – Parashat Vaetchannan

Rav Eliahu Birnbaum

Il popolo di Israele si appresta ad attraversare il Giordano e ad entrare nella Terra promessa. In quel luogo la sua vita cambierà e si dovrà confrontare con sfide mai conosciute prima. Questo è il momento culminante di tutto il percorso che, lungo i quaranta anni del deserto, darà luogo ad una nazione, partita come popolo di schiavi.

Da quel momento in poi la vita sarà diversa, il confronto quotidiano si relazionerà con le normali necessità di un popolo e non più con il rischio dell’imprevedibile. Per questo anche le strutture della leadership e del potere dovranno cambiare.
Moshé era cosciente di tutto questo. Egli era stato il visionario, il sognatore che aveva insegnato ad un intero popolo una utopia che stava per divenire realtà. Aveva guidato la liberazione di un popolo che non aveva voglia di essere liberato e lo aveva guidato attraverso il deserto, per tappe dove tutte le necessità vitali della sua gente furono soddisfatte in modo miracoloso.

In tutti questi anni Moshé ha esercitato il potere appellandosi alla fede, al pensiero magico, alla aspettativa di una vera e collettiva redenzione.

Ora Moshé, rivolto a Dio, dice: “ti imploro di lasciarmi passare perché possa contemplare la terra buona che c’è all’altro lato del Giordano” e rivolto al popolo soggiunge: “Ma l’Eterno era irritato con me per colpa vostra e non mi ha ascoltato. E mi ha risposto: Sali sulla cima del “Pisgà” e alza la tua vista ad occidente, al nord, verso sud e verso oriente e guarda fin dove riescono a vedere i tuoi occhi perché non passerai questo Giordano”.

In questo momento Moshé sapeva che la struttura del potere avrebbe dovuto cambiare al momento del passaggio del Giordano, era cosciente che non avrebbe continuato ad esercitare la sua leadership e per questo aveva fatto in modo che avvenisse la scelta in vita di Yeoshua, suo successore. La sua richiesta al Creatore aveva come obiettivo la realizzazione di un sogno ampiamente alimentato e perfezionato: Moshé era pronto ad entrare nella Terra di Israele come un uomo qualunque, come una pecora del gregge che sarebbe stato guidato dal suo successore.

Da qui capiamo che ogni epoca, ogni momento storico, ogni contesto – in ultima analisi ogni processo di cambiamento – necessitano di un leader con doti appropriate. In caso contrario si crea disorientamento e si disperdono le forze; colui che guida e coloro che son o guidati procedono per sentieri divergenti e non esiste sintonia tra le loro tattiche e strategie.

Il leader deve proiettarsi nel tempo presente, nella reale situazione, pur facendosi carico del peso della memoria. Perciò, concludono i nostri saggi, non fu un vero e proprio “castigo” l’impedire a Moshé di entrare nella Terra, ma era l’unico modo con il quale si poteva evitare che il “passato” interferisse nel nuovo percorso che attendeva il popolo di Israele e che era simboleggiato dal passaggio del Giordano: un percorso che implicava diverse sfide e quindi un diverso leader.

La gravità del “castigo” si mitiga, allo stesso tempo, con il permesso che il Creatore concede a Moshé di “guardare” la terra che non potrà raggiungere. La singolarità umana di Moshé si connette con la singolarità della Terra, ed egli “vede” quella “terra” che si scopre interamente di fronte a lui nel suo meraviglioso splendore. Il “sogno” conserva il suo carattere di realtà alternativa, di un universo estraneo alla coscienza ordinaria, che però consente una ratificazione sensoriale da parte dello spirito di Moshé. Come dire: “ Tu non sei entrato in me, ma io entro in te attraverso la porta dei tuoi occhi.” E la coscienza di Moshé può adesso riposare in tranquillità perché l’immagine del sogno si è trasformata in realtà.

Il rispetto per le minoranze – Parashat Ekev

Rav Eliahu Birnbaum

In questa parashà veniamo istruiti sul rispetto con il quale si devono trattare le minoranze che vivono all’interno della società ebraica. E ciò vale come esempio per insegnarci il rispetto per le minoranze in generale, cosa che significa parlare dell’inalienabile diritto alla differenza.

“Dio fa giustizia dell’orfano e della vedova e ama lo straniero che vive tra di voi, dandogli pane e abbigliamento. Voi dovrete amare lo straniero perché voi foste stranieri in Egitto.” E la Torà in seguito afferma: “ Amerai l’Eterno tuo Dio…”
La Torà si riferisce con questo precetto a tutti coloro che si trovano in una condizione di minoranza o in inferiorità: l’orfano, la vedova e lo straniero, coloro che appartengono ad un altro popolo o un’altra nazione, che sono fedeli di un’altra religione, che sostengono un’altra idea o appartengono ad un altro schieramento politico: tutti coloro che, in definitiva, sono “diversi” ma abitano nella stessa terra in cui noi siamo la maggioranza.

Questo precetto è quello che è ripetuto il maggior numero di volte nella Torà. Per ben quarantadue volte ci viene detto di rispettare la minoranza e il debole. I nostri saggi hanno addotto due motivazioni per spiegare la necessità di tale reiterazione: la prima è la rilevanza di un precetto che riguarda le relazioni umane e regola la vita di una comunità; la seconda perché si tratta di un precetto “molto facile da dimenticare”, trascurare o eludere, invocando argomenti il cui carattere fallace non è sempre facile scoprire.

La Torà espone a sua volta alcuni motivi per i quali è fondamentale questo rispetto. Il primo motivo è di carattere religioso: si tratta di rispettare tutti coloro che Dio, a Sua volta, rispetta ed aiuta. Facendolo seguiamo nel cammino di Dio. Ci viene insegnato che il “cammino umano” per assomigliare a quello di Dio deve essere un cammino morale e la sua essenza non si trova in lunghe preghiere o digiuni. Dio è il Padre di tutti gli uomini ed esige il rispetto per tutte le creature che furono da Lui create a Sua propria immagine ed in accordo con la Sua immagine. Lo straniero merita il nostro amore e rispetto, analogo a quello che professiamo nei confronti di Dio. Il secondo motivo che la Torà ci offre per compiere questo precetto fa appello alla nostra umanità ed alla nostra memoria. Ci viene ordinato di rispettare colui che si trova in condizione inferiore perché noi stessi siamo stati stranieri e siamo stati schiavi in Egitto.

Molto spesso accade che la sofferenza indurisce il cuore di una persona: in tal caso l’aver sofferto non induce a comportarsi con amabilità e giustizia nei confronti di coloro che vivono ciò che noi stessi abbiamo vissuto, ma esattamente il contrario. La Torà ci fa notare che, essendo passati per l’esperienza della schiavitù, dobbiamo identificarci con coloro che soffrono in analoga condizione.

L’esperienza dell’Egitto dovrebbe insegnarci la sensibilità umana e morale che è, in realtà, l’essenza dell’Ebraismo e che dovrebbe essere in noi connaturata. Oggi, questo insegnamento ha una valenza speciale, in quanto il progresso scientifico e tecnologico del nostro tempo non sembra aver contribuito al mutuo rispetto e alla concordia né a far sì che il diritto alla differenza sia maggiormente rispettato. Continuamente vediamo e viviamo manifestazioni che provano quanto poco sia avanzata l’umanità nelle attitudini che nobilitano la stessa condizione umana.

La responsabilità dei padri verso i figli – Parashat Ki Tetze

Rav Elihau Birnbaum

Questa parashà è, sicuramente, una delle più strane della Torà. Il suo tema centrale è la deviazione morale di un figlio di buona famiglia, un figlio che presumibilmente non ha avuto una infanzia difficile, che non ha sofferto grandi crisi familiari e che ancor meno ha subito carenze importanti nella sua educazione.

“Se qualcuno dovesse avere un figlio disobbediente e ribelle che non presta attenzione a quello che gli dicono i suoi genitori e che non obbedisce loro quando viene punito, i suoi genitori dovranno portarlo al tribunale degli Anziani della città…” e, dopo che siano state provate le sue trasgressioni, dovrà essere lapidato-secondo quanto stabilito dalla Legge, fino alla sua morte. Se la Torà avesse stabilito che questa norma come inappellabile non avremmo avuto possibilità di scelta o di opposizione. La Torà, al contrario, stabilisce che i saggi di Israele possano interpretare o restringere la Torà stessa e conferisce loro la prerogativa di far applicare la Legge nelle diverse circostanze.

La Torà non specifica chi sia colui che “non ascolta i suoi genitori”. Quand’è che la trasgressione supera i limiti consentiti? Si parla di uno che attacca i propri genitori, che ruba, che si ubriaca, che si droga? Si riferisce a chi è totalmente fuori dal controllo? Ovviamente non si tratta di chi ha solo un problema di condotta. I nostri saggi interpretano che quanto esposto nella Torà – cioè che il figlio è condannato dal tribunale alla pena di morte per lapidazione – abbia come unico obiettivo quello di essere analizzato e di costituire un esempio, ma non deve mai essere applicato alla realtà. La condizione di una persona in un dato momento deriva da una molteplicità di fattori, di opzioni, di interazioni con la società e con il contesto familiare nel quale si è sviluppata ed è cresciuta. A quale deviazione si riferisce la Torà quando parla del tipo di figlio ribelle e condannabile a morte dal tribunale?

In considerazione della responsabilità che implica per un tribunale l’emettere una sentenza di condanna a morte, i saggi del Talmud hanno elaborato una serie di circostanze per la quali un tribunale deve retrocedere e dichiararsi umanamente incapace di sentenziare. Secondo i nostri saggi, considerare completamente colpevole un “figlio disobbediente e ribelle” se non è stato cresciuto da sua madre e suo padre insieme (in caso di divorzio o di assenza di uno di essi) o se uno dei due è invalido o “cieco” o “sordo” o non ha trasmesso un messaggio coerente per la sua educazione. Se uno dei genitori è assente o se hanno divorziato ed il figlio vive con uno solo di essi è molto difficile che il bambino riceva una educazione armoniosa e completa. Se uno o entrambi i genitori sono invalidi non potranno far valere compiutamente la loro autorità. Genitori ciechi o sordi sono coloro che non ascoltano le inquietudini dei loro figli, nonne percepiscono la necessità di amore ed affetto, non intervengono quando è necessario e quindi non soddisfano le loro necessità.

Un gran rischio nella educazione dei figli è la cecità e la sordità di fronte ai segnali che i genitori dovrebbero cogliere.

In conclusione, solo se i genitori trasmettono ai loro figli un messaggio coerente e convergente, solo se esiste una piena armonia sia nella vita fisica che spirituale della famiglia, si potrà accusare il figlio. Se le cose non stanno in questo modo egli non potrà essere responsabilizzato per la sua condizione.

Di fatto, i saggi sono giunti alla conclusione che il caso tragicamente estremo del figlio ribelle condannabile a morte come previsto dalla Torà è inapplicabile alla realtà, poiché in ognuno di noi si possono trovare forme di cecità e di mancanza di attenzione per i figli e per la realtà che li circonda.

L’armonia completa è impossibile: ci saranno sempre fattori eterni che inevitabilmente influiranno sulla educazione e sviluppo del bambino.

Il linguaggio dei simboli e i rituali ebraici – Parashat Kitavo

Rav Eliahu Birnbaum

I segni costituiscono un linguaggio attraverso cui individui e culture traducono la realtà e le esperienze. Il sistema dei segni e dei simboli che appartiene ad una comunità culturale è il linguaggio che permette di collocare quanto all’interno di se stessa ed intorno a sé in una mappatura preesistente e che può essere mutata dal labirinto della vita.

La Torà si occupa in questa parashà di stabilire i simboli che dovranno guidare l’interpretazione che il popolo di Israele darà alle sue realtà e alle sue esperienze. La stessa vita dell’ebreo moderno è basata sui simboli ereditati dalla Torà, tradotti in ogni generazione nel segno referenziale della sua vita reale. In questo modo ogni parola ed ogni atto, ogni festività ed ogni suono sono partii di questo linguaggio peculiare che costituisce il subcosciente di tutti gli ebrei e al quale essi si richiamano di continuo.

La maggioranze degli ebrei del nostro tempo non approfondisce il significato o la ragion d’essere di molti dei propri rituali, però è il valore simbolico che essi conservano che sostiene la volontà di osservarli, evocando una tradizione lasciata dalle generazioni precedenti. Tutti i sentimenti umani si traducono in simboli, in un linguaggio che trasla (tale è il significato del termine “metafora”) ogni azione quotidiana ad un livello che trascende l’esperienza individuale e la connette con la vita millenaria di una nazione ed una cultura, fatta di lingue, rituali, aromi e colori.

“E sarà nel giorno in cui passerete il Giordano verso la Terra che l’Eterno tuo Dio ti dona, che porterai per te grandi pietre e scriverai su di esse tutte le parole della Legge con molta chiarezza.” Questo è il primo simbolo a fondamento della cultura ebraica. Il popolo di Israele riceve l’ordine di costruire e incidere queste pietre prima di entrare nella Terra di Israele: l’elemento materiale che si riporterà la ragione d’essere di tutta la conquista precedente. Il linguaggio orale con il quale Moshé aveva istruito il popolo diviene insufficiente quando si deve entrare in azione. Moshé intendeva dire che l’uomo ha bisogno di simboli materiali ai quali riferirsi, che possano costituire una bandiera con la quale identificarsi ed attraverso la quale rappresentare i propri sentimenti e le proprie credenze.

“E scriverai nelle pietre tutte le parole della Legge con molta chiarezza”. Scrivere con molta chiarezza fa riferimento alla necessità di universalizzare il simbolo: questo non sarà riservato ad una elite, ma dovrà essere un riferimento immediato per ogni individuo della comunità. Il Talmud interpreta che la totale chiarezza della quale parla il comandamento implichi un richiamo ad un linguaggio che sia inteso da tutte le persone. La Legge fu scritta, secondo la spiegazione dei nostri saggi, in settanta lingue con settanta “volti” in modo che ognuno si potesse vedere riflesso in ognuna di essi.

Da questo principio osserviamo che gli insegnamenti della Torà non sono diretti esclusivamente al popolo di Israele. Pur astenendoci da qualunque forma di proselitismo, portiamo il suo messaggio in modo che sia accessibile ad ogni persona o ad ogni popolo che desidera avvicinarsi ai valori della Torà e della cosmogonia.

Le pietre di cui si parla in questa parashà, su cui è incisa la legge, si trasformarono in simboli universali, soggetti alle interpretazioni che ogni cultura avrebbe dato ad essa e, allo stesso tempo, saranno anche un simbolo individuale per ogni componente del popolo di Israele.

Il Tanach è la continuazione di queste pietre incise con le leggi basilari della Torà. Ed in quanto tale si è trasformato un libro universale, tradotto al giorno di oggi in 1710 lingue e dialetti che lo hanno reso accessibile a tutte le culture del mondo.

Il patto di ognuno di noi – Parashat Nitzavim

Rav Eliahu Birnbaum

manosOgni cultura concepisce forme divers di relazione ed impegno tra le persone e le istituzioni. Noi ci rapportiamo alle persone ed alle istituzioni, per iscritto o oralmente, sia attraverso le emozioni, che l’intelletto, che la legge. In questa parashà la Torà pone di fronte a noi una formula diversa di impegno: il Patto.

“Tutti voi siete oggi presenti di fronte l’Eterno vostro Dio: i vostri capi, i vostri anziani ed i vostri giudici, con tutti gli uomini di Israele; i vostri figli, le vostre mogli e gli stranieri che vivono nel vostro accampamento, dal tagliatore di alberi fino al raccoglitore di acqua, per entrare nel Patto con l’Eterno vostro Dio e nel giuramento con il quale Dio si impegna con te. Con esso Egli ti consacra oggi come Suo popolo, essendo Egli il tuo Dio come lo ha giurato a te, ai tuoi padri, Abraham, Itzhak e Yaakov. Però non solo con voi ha stabilito questo patto, ma anche con coloro che non sono presenti oggi qui.”

Il Patto che formula la Torà prevede la necessità di due parti, chiaramente differenziate ed obbligatoriamente presenti, che accettano il patto in modo esplicito. Da un lato abbiamo Dio, dall’altro il popolo di Israele composto da persone che, nel momento in cui viene stipulato il Patto, si rivolgono a Dio al singolare come se fossero un unico individuo. Il patto si realizza sempre tra due parti che mantengono la loro indipendenza ma che non sono obbligatoriamente uguali o reciprocamente equivalenti. Il concetto di Patto è applicabile al rapporto tra Dio e l’uomo, a quello di un uomo con sua moglie, a quello tra due uomini o a quello tra istituzioni con usi ed ideologie differenti: due uomini o entità “uguali” non hanno bisogno di un patto. Sarebbe inutile fare un patto con se stessi.

A differenza di quanto accade per i contratti, le norme e le leggi – tutte queste sono formulazioni umane di relazioni a termine – il Patto è fondato sul concetto di fedeltà al di sopra dei benefici. Un patto necessita e stabilisce un impegno comune ed un obiettivo al quale tendono i contraenti – che diventano alleati – a cui vengono subordinati gli elementi di differenza.

Il mondo nel quale viviamo ha contribuito a debilitare nel popolo ebraico, il concetto e la conseguenza del patto. Le relazioni interpersonali e tra le istituzioni si basano su norme e contratti che variano in funzione delle circostanze. Di fatto gran parte della crisi dell’Ebraismo nel mondo post-moderno deriva dall’assenza del “patto” nella vita quotidiana degli ebrei, l’indebolimento della loro connessione con l’Ebraismo, con il resto del popolo ebraico, con la memoria collettiva, con la Diaspora e lo Stato di Israele.

Allo stesso modo, gran parte della soluzione alla crisi generale che affrontiamo sta in un rinnovamento individuale di ciascuno del “patto” ereditato, quale mezzo per tornare ad avere una identità collettiva forte e sana, che sia valida per tutti noi e renda valido quel patto che, in ogni momento della nostra vita, ci ha protetto e ci protegge, ci ha impegnato e ci impegna.