Preparativi per una nuova realtà – Parashat Vaielech

Rav Eliahu Birnbaum

“E Moshé disse queste parole a tutto Israele: oggi ho cento e venti anni e non posso più uscire ed entrare. Inoltre Dio mi ha detto: “Tu non passerai il Giordano (…) Yehoshua mi sostituirà e continuerà a guidare il popolo…” In questo modo Moshé dà il suo addio al popolo di Israele a metà del cammino che aveva sognato e per il quale aveva loro insegnato a camminare. Moshé vive in questo momento una delle più grandi frustrazioni che può sperimentare un uomo, come il padre che prepara i suoi figli per la vita però è assente nel vedere i risultati dei loro sforzi.

Ogni situazione di rinuncia è traumatica per quanto sia stata attesa e programmata. La perdita di Moshé non giunge improvvisa ma è stata minuziosamente preparata in ogni dettaglio; ciò non attenua per il popolo la traumaticità e la difficoltà della situazione.

La condotta di Moshé nel momento in cui prende commiato dal popolo è esemplare. Moshé non intendeva pronunciare il suo addio da “pulpiti e balconi” né con grandi discorsi, bensì cercando una volta ancora il contatto personale con il popolo che aveva guidato. Non era il leader che ai nostri giorni sarebbe apparso nei comizi in epoca elettorale, per trasmettere ai posteri una immagine attraverso i flash ed i microfoni: per lui, il contatto quotidiano con la sua gente non era un mezzo carismatico per ottenere l’adesione delle moltitudini, ma un cammino sincero per comprendere ed occuparsi delle necessità del suo popolo.

Esiste una seconda lettura dell’attitudine di Moshé, la cui franchezza non nasconde il suo carattere genuinamente pessimista rispetto alla relazione tra governante e governato. Moshé si rivolge al suo popolo, probabilmente anche perché il suo popolo non si rivolge a lui. Moshé stava concludendo la sua funzione di dirigente e il popolo si preparava ad elaborare la sua relazione con il “nuovo governo” che avrebbe assunto la responsabilità di guidarlo.

A nulla valevano, in questo frangente, i quaranta anni di storia che erano trascorsi: essi avrebbero avuto un loro valore, in tutta la loro grandezza, molto più avanti.

Anche nella società dei nostri giorni accade qualcosa di simile, giustamente o ingiustamente, per molti dirigenti quando giungono al termine della loro missione. A volte sono essi stessi che si ritirano, in altre occasioni è la stessa società che li consacra o li dimentica, modi entrambi per prendere le distanze da loro e dalla loro realtà.

Questo è il caso, nello Stato di Israele, di Ben Gurion, di Menachem Begin, che si ritirarono a vita privata una volta compiuta la loro funzione pubblica o quello di Aba Eban, nei cui confronti l’opinione pubblica, a un certo momento ritirò la fiducia. Dovremmo chiederci la ragione di tali fenomeni formalmente identici dai tempi di Moshe fino ai nostri giorni.
Perde valore il messaggio di un leader quando questo abbandona l’orbita del potere? O non sarà che la società orienta le sue relazioni in base alla convenienza della congiuntura e tanto l’oblio quanto la “totemizzazione” di un leader, permettono di gestire la nuova realtà senza la sua interferenza?

L’uomo creatore – Parashat Bereshit

Rav Eliahu Birnbaum

Questa parashà dà inizio alla lettura della Torà, offrendoci l’opportunità di un nuovo ciclo di studio e di apprendimento dei testi biblici.

Bereshit è il libro della Creazione del Mondo e del primo Uomo così come della nascita del primo ebreo. E’ il libro nel quale il Creatore si manifesta, dando forma e movimento al suo sguardo tridimensionale sul mondo e generando una creatura primordiale che si caratterizza per essere fatta a Sua immagine e somiglianza: l’uomo è creativo per definizione, rispetto a colui stesso che lo ha creato.

La prerogativa dell’impulso creativo non appartiene a nessuna altra creatura all’infuori dell’uomo. I lavori di tipo creativo compiuti da diverse specie animali sono prevalentemente di tipo utilitaristico e volti a conseguire un vantaggio immediato: gli animali possono costruire una tana ed accumulare cibo per l’inverno, ma la loro creazione non supera i limiti della soddisfazione dei bisogni basilari. L’uomo creato “ad immagine e somiglianza” del suo Creatore, è spinto verso una vita di costante azione e creazione. L’uomo rispecchia il suo Dio nella creazione, nella costruzione, nella formazione e nell’ azione che attua nel corso di tutta la sua vita.

L’uomo deve essere effettivamente cosciente della propria condizione di creatore sia nell’ambito materiale che in quello spirituale; ciò è ben lontano dal trasformalo in Dio, ma lo rende degno della sua condizione umana. La missione dell’uomo sulla terra consiste nel perseguire la perfezione archetipica del progetto del Creatore. Noi siamo creatori a nostra volta, proiezioni temporali della Sua Maestà, strumenti temporali dell’Assoluto.

L’uomo ha la capacità di “creare” la luce, estraendo energia dalla materia per illuminare le tenebre. Per completare la sua missione, può e deve governare le forze del mondo minerale, vegetale e animale al fine di organizzare il cosmo, partendo dal caos primordiale nel quale è stato posto. Così, secondo le capacità e le inclinazioni di ciascuno, siamo capaci di creare in ambito intellettuale, nell’arte e nella scienza applicata, dando dignità alla vita della nostra specie, imparando a trasformare la natura in strumento di armonia, in tecnologia e in mezzo per superare le barriere che sono state poste al nostro intelletto e nella natura, proprio al fine di stimolarci a superarle.

La scelta si impone ad ognuno di noi e, più ampiamente, alla cultura alla quale apparteniamo ed al cui sviluppo contribuiamo, anche con le azioni più banali dell’agire quotidiano. Possiamo essere meramente guardiani del mondo, ponendoci su una torre solo per osservare il regno su cui esprimiamo una sterile maestà. Oppure possiamo adottare l’attitudine contemplativa di uno spettatore intelligente e apprendere scientificamente i meccanismi che regolano il mondo nel quale viviamo, evitando tuttavia un nostro intervento che potrebbe modificarlo. Ma la collocazione che ci renderà chiaramente umani in armonia con le capacità che possediamo non è tra quelle precedenti: lo spirito dell’ “imitatio dei”, imitazione di Dio, consiste nel trascendere lo stadio primordiale ed intervenire responsabilmente per controllare la natura e guidarla verso l’obbiettivo che solo noi, tra tutte le creature che ci circondano, siamo capaci di individuare e di perseguire.

L’Uomo che trascende se stesso – Parashat Vaierà

Rav Eliahu Birnbaum

Abramo, in questo momento della sua biografia, si presenta come un libero pensatore che può, con onestà, rifiutare le concezioni di vita della maggioranza della popolazione della sua epoca: un uomo coraggioso, anticonformista, che non si arrende al conformismo e non ha paura di confrontarsi con il mondo culturale e sociale in cui è inserito. Abramo è al tempo stesso un guerriero ed un uomo che si prodiga per la propria famiglia, per il prossimo e per la società intera. Si tratta di un uomo eccezionale che si pone dilemmi e domande perché vuole capire.

Ci troviamo, in un primo tempo, di fronte all’episodio nel quale appaiono tre sconosciuti che attraversano la terra di Abramo ed egli li implora che accettino la sua ospitalità. La sua ospitalità è assolutamente spontanea in quanto per lui sarebbe stato profondamente innaturale non offrire cibo e riposo a coloro che passavano nei pressi della sua dimora. La necessità di giustizia e la vocazione nel servire gli altri sono presenti in tutti i momenti cruciali della sua vita.

In questa parashà Dio ha deciso di distruggere le città di Sodoma e Gomorra ed Abramo lo interroga: “Per caso il Giudice supremo non farà giustizia?” e, per così, dire lo sfida a rispondere circa i cinquanta giusti che potrebbero trovarsi nella città. Lungo il percorso che lo porta a ridurre via via il numero di giusti, Abramo dimostra di preoccuparsi dell’eventualità che venga commessa un ingiustizia anche soltanto nei confronti di un solo essere umano. Finalmente Dio accetta di perdonare la città di Sodoma nel caso in cui vi fossero stati in essa dieci persone giuste. Ma nonostante il dolore che prova, Abramo sa che i disegni divini sono imperscrutabili.

Quando gli angeli – perché questi erano i realtà gli uomini che Abramo aveva ospitato – arrivano a Sodoma, Lot, nipote di Abramo, offre loro ospitalità. Tutti gli abitanti di Sodoma vorrebbero rapirli per far loro violenza ma, di fronte alla impotenza di Lot nel risolvere la situazione, gli angeli stessi gli ordinano di prendere sua moglie e le sue due figlie e si preparano, in nome del Creatore, a distruggere la città e ad uccidere i suoi abitanti. Un ennesima volta vediamo qui la verticalità dell’opera della mano di Dio nel momento in cui risolve una crisi. Mentre Sodoma e Gomorra sono distrutte tra zolfo e lapilli, Lot si preoccupa che nessuno della sua famiglia si volti indietro; ma sua moglie cede alla tentazione e disobbedisce all’ordine ed immediatamente viene tramutata in una statua di sale.

Gli angeli avevano annunciato ad Abraham e a Sara che in capo a poco tempo avrebbero avuto un figlio. Sara, considerando la sua età avanzata, aveva riso alla sola idea che ciò potesse accadere. In effetti, dopo qualche tempo Sara si ritroverà incinta e darà alla luce un bambino che Abramo chiamerà Isacco. Creando una linea di continuità con il patto di parola e sangue che aveva stabilito con il creatore, Abramo circoncide suo figlio agli otto giorno dalla nascita.

Passa del tempo ed il Creatore mette una volta ancora alla prova la devozione di Abramo chiedendogli il sacrificio di suo figlio e dimostrerà la sua misericordia e il suo rifiuto verso una morte inutile accontentandosi della sola intenzione di Abramo e non permettendogli il sacrificio della sua unica e ineguagliabile discendenza.

La testa in cielo e i piedi ben piantati sulla terra – Parashat Vayetzé

Rav Eliahu Birnbaum

Yaakov fugge dalla casa dei suoi genitori per il timore della vendetta di suo fratello Esav e cammina fino al confine della terra di Canaan. Al calar della notte decide di pernottare e continuare il suo cammino al mattino successivo, appoggia la sua testa su una pietra e dorme e sogna…. Questo sogno di Yaakov è uno dei capitoli di maggiori ampiezza e profondità simbolica dell’intera Torà.

L’ingegno e le capacità intellettuali di molti rabbini hanno “giocato” con la quantità e la originalità delle interpretazioni che si possono dare a questo momento onirico di illuminazione. Questo sogno, con le sue diverse esegesi, si configura come una delle colonne della Cabalà, l’interpretazione che studia e pratica i misteri della Torà.

“Giacobbe partì da Beersheva e si diresse verso Charran. Capitò così in un luogo, dove passò la notte, perché il sole era tramontato; prese una pietra, se la pose come guanciale e si coricò in quel luogo. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa.”

Un sogno e soprattutto un sogno che si può ricordare facilmente, è un qualcosa che richiede di essere interpretato. Di solito noi dedichiamo molti sforzi per interpretare le azioni e le parole, i linguaggi esteriori dell’uomo, ma manchiamo di quella sensibilità che è imprescindibile per poter interpretare i sogni.

Il sogno di Yaakov consta di due elementi centrali: la scala e gli angeli che salgono e scendono su di essa. La scala di Yaakov appoggia uno dei suoi estremi sulla terra e l’altro in Cielo. Questo è il fondamento dell’equilibrio perfetto: una armonia poggiata con identica forza sia nel Mondo superiore che in quello inferiore. Per ottenere l’equilibrio con i piedi ben piantati per terra bisogna che la testa abbia la libertà di sognare. Il secondo elemento protagonista del sogno di Yaakov è costituito dagli angeli, l’elemento dinamico della scala che connette il mondo superiore con quello inferiore. Per arrivare in cielo, per raggiungere la migliore sintesi umana con l’archetipo divino, bisogna essere dinamici ed attivi. Dio sta in vetta alla scala, sostenendo il suo punto superiore, e l’uomo si incontra alla fine di essa: entrambi sono soci nell’impresa di arrivare all’obbiettivo prefissato.

La scala di Yaakov ci insegna che la vita deve essere concepita più verticalmente che orizzontalmente. La vita non è un orizzonte piano e piatto, la vita è una montagna immensa piena di ostacoli, sfide e separazioni con cui l’uomo è chiamato a confrontarsi per poterle superare.

Il cambio di un nome segna il cambio del destino – Parashat Vaishlach

Rav Eliahu Birnbaum

La vita del patriarca Yaakov è segnata dalla costante dicotomia tra i sogni e la realtà. Quando uscì dalla terra di Canaan, sognò la scala che definiva l’esperienza che avrebbe vissuto fino al suo ritorno, allorché si confrontò con l’angelo divino.

Fin dalla sua nascita egli dovette affrontare difficoltà e conflitti, sia interni che connessi col mondo che lo circondava: litiga con suo fratello prima del parto, compra la primogenitura, partecipa all’inganno della benedizione di suo padre, difendendo il suo diritto alla primogenitura acquistata si vede costretto a fuggire verso Haran. Lì lavora per quattordici anni nell’azienda di Lavan che lo inganna dandogli come sposa Lea invece di Rachel. Quando finalmente abbandona suo suocero, pieno di tremore ed apprensione va incontro a suo fratello Esav; poi sua figlia Dina subisce violenza, i suoi figli odiano il suo favorito Yosef, il quale “sparisce” ed alla fine discende in Egitto nel mezzo di una carestia e in quel luogo muore.

La vita di Yaakov è un esempio degno di essere studiato per imparare come si debba reagire allorché si corre il rischio di essere sopraffatti dalle difficoltà e dai contrattempi. In questo senso possiamo osservare tre modalità di condotta paradigmatiche:
-La prima è quella dell’ottimismo ingenuo e radicale alla Leibniz: “Le difficoltà non esistono, solo l’immaginazione dell’uomo è responsabile di aver creato il male e le sue conseguenze.”
-La seconda è quella che riconosce la realtà con il suo complesso intersecarsi di elementi positivi e negativi, ma nei suoi confronti si alzano le mani sentendosi impotenti di fronte alle difficoltà incontrate nel proprio cammino.
Entrambi tali modalità nascono comunque da una distorsione della realtà oggettiva o soggettiva e quindi sono pericolose per l’uomo e lo lasciano passivo ed indifeso.
-La terza modalità è rappresentata dalla vita di Yaakov, il quale si confronta costantemente con le sfide che ha davanti, senza mai rassegnarsi e senza mai alzare le braccia in segno di impotenza.
Questa modalità è l’unica che permette davvero di affrontare efficacemente la realtà e di confrontarsi con essa con energia e consapevolezza.

Nel momento cruciale della sua vita, Yaakov ha un vero e duro scontro notturno con l’angelo. In questo racconto si confondono i confini tra sogno e realtà, tra il sognare da sveglio o da dormiente. A noi la situazione si presenta come un sogno, ma tale sogno si proietta luminosamente, con tutte le sue conseguenze, nella realtà. Nel momento in cui, al culmine del sogno, Yaakov cambia il nome in “Israel”, di fatto cambia anche il destino proprio e, con esso, quello di tutta la sua discendenza.

Il popolo e Israele (questo è il nome che ha donato alla sua discendenza invece di Yaakov o Yehuda) fedeli all’archetipo ereditato, hanno sempre dimostrato di saper lottare, confrontarsi e difendersi e ciò vale anche per Israele inteso come entità statuale.

Ed anche oggi succede che il popolo di Israele si trovi solo a lottare nell’oscurità notturna fino a che non giunge l’alba: in quel momento, malgrado appaia ferito e zoppicante a causa del combattimento, Israele è pieno di nuove forze per continuare nel proprio cammino millenario.

La paura del cambiamento – Parashat Vayeshev

Rav Eliahu Birnbaum

Tutti i personaggi centrali di Bereshit sognano: Avraham, Itzhak, Yaakov e persino Yosef affrontano la vita con un piede nella realtà temporanea e l’altro nel mondo dei sogni, del desiderio, della ricerca spirituale e dell’utopia.

 

In questa parashà Yosef si incontra con i suoi fratelli e tale incontro mette in crisi il rapporto tra una realtà tradizionalista e un sogno radicale. I fratelli avevano buone ragioni per odiare Yosef: era ostinatamente il preferito del loro padre, come lui era un sognatore e ne aveva adottato il linguaggio e il modo di pensare; la sua ricerca spirituale era loro estranea.

Tra tutti i conflitti che, a questo punto della sua vita, Yaakov ha già dovuto affrontare, questo è il primo che capita all’interno della sua famiglia. Yaakov ama Yosef più degli altri suoi figli, perché Yosef è il figlio di Rachel, il suo primo e più grande amore e perché egli a sua volta è un sognatore. Nel donargli una tunica a strisce, simbolo di un sentimento ancor prima che di ricchezza, Yaakov rende manifesta la sua preferenza per Yosef e per questo gli altri suoi figli cominciano ad odiarlo fino al punto di non essere più capaci di parlare con lui in modo pacifico.

Ciò che dà fastidio ai fratelli di Yosef non è il valore economico della camicia. Secondo quanto ci spiega il Talmud questa era costata 2 selaim, un prezzo molto basso. Ciò che dà fastidio ai fratelli di Yosef è il valore affettivo dell’oggetto: per creare distanza e rancore tra fratelli non abbiamo bisogno di grandi regali, di auto e di tecnologia, basta una piccola differenza nell’amore che si dimostra: una differenza che spesso non richiede, né tantomeno può, essere spiegata. Considerando il fatto che una tunica possa aver avuto una simile influenza sul destino di Israele, il Talmud conclude che non vi debbano essere differenze né materiali, né affettive nei confronti dei figli, poiché il danno procurato è molto maggiore rispetto al beneficio.

Certamente come buon continuatore del percorso ereditato, Yosef sogna situazioni che lo rendono molto pericoloso per la società e per ciò che in essa è comunemente accettato e stabilito. Questi sogni sono la prosecuzione di quelli di Yaakov. Suo padre sognava scale, angeli, Dio ed il cielo. Yosef in base all’archetipo che eredita, sogna uomini, campi, covoni. Yaakov sognava Dio ed entrava oniricamente in Cielo. Yosef sogna gli uomini e  gli elementi basilari della loro economia, e tali sogni lo porteranno al dominio sulla terra.

Trasformato in nemico pubblico da coloro che difendono il conservatorismo delle strutture e temono il cambiamento, arriva per Yosef il momento in cui deve essere rimosso. I fratelli fanno piani contro di lui, lo sequestrano e lo vendono come schiavo ad una carovana di Ismaeliti. Proiettano immediatamente il loro trionfo sulla tunica, oggetto simbolo del loro odio nei confronti di Yosef: la strappano, la macchiano con il sangue di un agnello e la portano al padre il quale, essendo sicuro che il suo figlio favorito sia stato divorato da una bestia, da quel momento in poi si pone in una condizione di lutto permanente.

Yosef rappresenta l’immagine del rivoluzionario, dell’utopista che invoca e provoca cambiamenti nella realtà. I fratelli, avendo compreso che, in quanto sognatore, egli sollecitava una nuova struttura familiare e sociale, non volevano correre i rischi insiti nei cambiamenti e preferivano continuare sul cammino di una realtà quotidiana e conosciuta, sia nel bene che nel male.

Parashat Vaigash – Le quattro tappe della vita umana

di Rav Eliahu Birnbaum

Questa parashà contiene uno dei passaggi più significativi della Torà da cui possiamo imparare quale debba essere il comportamento dell’ebreo in esilio.

Yosef era giunto in Egitto come schiavo e, dopo sofferenze ed ingiustizie, arriva a conquistare la posizione più potente in quella nazione: da schiavo umiliato diventa un principe, un uomo temuto e rispettato da tutti. E’ la prima realizzazione che troviamo nella nostra tradizione, del sogno che ogni emigrante nasconde in sé, allorché comincia ad integrarsi in una nuova società.

Fino alla fine della parashà precedente, Yosef era sempre stato descritto come un sognatore; ora diventa un amministratore efficiente, freddo e calcolatore. Solo ora, quando Yosef si rivede con i suoi fratelli, possiamo percepire la profondità delle sue emozioni, che in qualche modo ci rimandano al Yosef che abbiamo già conosciuto.

I fratelli di Yosef giungono in Egitto cercando provviste. L’atteggiamento di Yosef nei loro confronti è distante, severo, in alcuni momenti, vendicativo. Per cominciare li accusa di spionaggio e pretende come prova della loro innocenza la presenza di Biniamin, il suo fratello minore, l’unico figlio della sua stessa madre, Rachel. Uno dei suoi fratelli è rimasto in Egitto come ostaggio mentre gli altri sono ritornati da Canaan con Biniamin. All’arrivo di questi Yosef fa nascondere tra i suoi effetti personali una coppa del palazzo; in seguito la scopre, lo accusa di furto, tradimento, ingratitudine e ordina di incarcerarlo. Durante tutti questi avvenimenti vediamo un Yosef distante dalla sua famiglia, estraneo, indifferente, che in certo qual modo, cerca vendetta per le amarezze del passato. Il vincolo familiare gli sembra irrilevante, come se il legame di sangue, la vicinanza fisica vissuta durante l’infanzia, non fossero una ragione sufficiente per una profonda solidarietà e fraternità nel presente.

Un solo argomento fa reagire Yosef e gli fa recuperare il legame nei confronti della sua famiglia. Questo accade quando Yehuda si erge a difesa di Biniamin, chiede che sia liberato e pone una particolare attenzione all’amarezza e al danno irreparabile che la perdita di questo figlio provocherebbe a loro padre Yaakov. Di fronte alla possibilità di essere la causa del dolore del proprio padre, Yosef cambia immediatamente opinione.

Kierkagaard sostiene che la vita umana è scandita da quattro passaggi e cioè: quello della bellezza, quello della moralità, quello del ridere e del cinismo e, infine quello in cui dedicarsi a temi sacri e familiari. Yosef era passato attraverso il periodo della bellezza durante la sua gioventù, in seguito era passato attraverso quello della moralità ed ora, l’incontro coi suoi fratelli, lo porta a concludere quello del riso e del cinismo, e ad entrare nel quarto: quello del recupero della sacralità e del valore della famiglia.

In questo preciso momento, quando Yosef si rivela di fronte ai suoi fratelli, egli piange per la prima volta. Non aveva pianto prima, quando fu buttato nel pozzo, né tantomeno quando fu venduto come schiavo né quando fu incarcerato. Solo di fronte alla presenza del suo fratello Biniamin è sopraffatto dall’emozione e rompe in pianto, chiedendo come stesse suo padre e come stesse la sua famiglia. Yosef è da solo con i suoi fratelli, invia qualcuno a cercare suo padre e, una seconda volta, rompe in pianto. Tutta la durezza e la freddezza accumulata durante i suoi anni come egiziano si dissolvono nel momento stesso in cui torna ad identificarsi nella persona di suo padre, in quel Yaakov che era un sognatore come lui. Dopo molti anni e dopo un duro e necessario percorso di apprendimento, il cerchio si può chiudere e la famiglia si può nuovamente riunire.

Parashà Shemoth – Ciò che definisce una nazione

di Rav Eliahu Birnbaum

Il libro di Bereshit ci ha fatto conoscere una serie di storie individuali di uomini e donne prototipi, le cui vite hanno segnato per sempre la loro discendenza ed hanno avuto grande influenza su di essa. Il libro Shemot che comincia con la parashà che porta lo stesso nome, non si riferisce più a singoli individui ma introduce il concetto di popolo, di un gruppo di individui che condividono una stessa identità.

 

 «Allora sorse sull’Egitto un nuovo re……e disse al suo popolo: “Ecco che il popolo dei figli d’Israele è più numeroso e più forte di noi. Prendiamo provvedimenti nei suoi riguardi per impedire che aumenti”». In questo punto, il termine “popolo” riferito ad Israele, appare per la prima volta, nella bocca del Faraone. Prima ancora degli stessi ebrei, è quindi un estraneo che riconosce l’identità comune di tutta la discendenza di Yaakov, il suo carattere di popolo. I discendenti di Israele avevano sin dal principio una quantità di elementi di coesione che offriva loro una comune identità, però è in uno momento ben determinato della loro evoluzione che si può affermare la nascita di un “popolo”: una identità collettiva nuova, che raggruppa tutti gli individui, senza annullarli, essendo tale collettività qualcosa di distinto dalla loro somma.

Il popolo, per funzionare come tale, deve essere definito tanto all’esterno – ovvero riconosciuto come tale dai suoi pari – quanto al suo interno, rendendo partecipe ognuno dei suoi membri, coscientemente e senza alcuna crepa, della identità collettiva.

Nelle parole della Torà relative alla assunzione da parte di Israele del connotato di popolo, incontriamo diverse particolarità che si riproporranno lungo il corso della sua storia. In un primo momento è il Faraone e non sono gli ebrei a definire l’esistenza del popolo di Israele, così come è sempre lo stesso Faraone che ne determina le caratteristiche di chi ne faccia parte. Valga come esempio di un caso simile, quello delle leggi di Norimberga che decretarono che fosse ebreo colui che, risalendo fino a quattro generazioni precedenti, aveva anche un solo antenato ebreo. Ogni volta che nella storia un ebreo ha sottostimato o dimenticato la propria identità, è stata la storia stessa a farglielo ricordare.

E’ altresì interessante notare che essendo passati solo pochi anni dall’arrivo dei settanta discendenti di Israele in Egitto, il Faraone comincia a vedere che gli ebrei avrebbero potuto diventare numericamente un pericolo per l’integrità della nazione egiziana. E’ un altro “leit motiv” che si sarebbe ripetuto nella storia: i paesi abitati dagli ebrei, tanto oggi quanto in passato, hanno sempre sovrastimato quantitativamente e qualitativamente gli ebrei che vivevano in essi, cosa che spiega il sorgere del timore della cospirazione ebraica e della loro dominazione, che fu causa di tante persecuzioni cui il nostro popolo fu oggetto.

“Prendiamo provvedimenti nei suoi riguardi…” dice il Faraone. Questa è la migliore formula per fronteggiare il nemico, quello interno come quello esterno. Per provare a rompere il ciclo con cui la storia ritorna su stessa, è necessario acquisire la coscienza della necessità di assumere per noi stessi una identità ferma e cristallina onde evitare la distorsione che altri la definiscano per noi.

Parashat Bo – Perché è importante la relazione tra le generazioni?

di Rav Eliahu Birnbaum

La Torà nella sua completezza, con tutte le mitzvot, leggi pratiche e teoriche, fu donata al popolo di Israele solo nel momento in cui esso arrivò ai piedi del Monte Sinai, ma quattro mitzvot furono imposte precedentemente. Il primo precetto fu quello del “pru urbù”, siate fertili e moltiplicatevi, comandato da Dio stesso ad Adamo ed Eva, in seguito venne il “brit milà”, il patto stabilito tra Dio e Abramo per tutte le generazioni successive, attraverso la circoncisione, poi il “guid hanashe” (la proibizione di mangiare il nervo del muscolo posteriore degli animali) ed in questa nostra parasha, per ultimo, il popolo di Israele riceve l’ordine di compiere il “korban pesach”, ovvero il sacrificio di un agnello, prima di rompere il laccio della schiavitù ed il legame con l’Egitto.

 

A ciascun membro del popolo di Israele è dato questo precetto che comporta una autentica sfida: l’agnello, animale sacro per gli egiziani, doveva essere preso, custodito per tre giorni in casa di ogni ebreo e sacrificato davanti allo sguardo degli egiziani. Alla fine, il rituale prevedeva anche l’obbligo di consumare tutta la carne dell’agnello e per questo era necessaria la partecipazione di varie famiglie ebraiche ad ogni sacrificio.

A partire dal korban pesach nasce la simbologia della mensa ebraica come elemento di coesione religiosa e culturale. La famiglia ebraica si siede intorno alla tavola e il nutrimento che lo spirito riceve non è minore di quello che riceve il corpo con il cibo che viene ingerito.

La mensa ebraica è il pilastro dell’armonia tra le generazioni, è un momento vibrante che aiuta la trasmissione dei contenuti ebraici, è un’occasione di redenzione dai conflitti tra gli individui.

Quando il Faraone decise di permettere che il popolo di Israele si dirigesse nel deserto ad offrire il korban chiese a Moshe e Ahron: “Chi sono coloro che usciranno?”

“Con i nostri giovani, con i nostri anziani andremo” rispose Moshe, “con i nostri figli e figlie, con tutto il nostro bestiame andremo, dato che è una festa per Dio e per noi.”

Un popolo che realmente desidera acquisire una condizione di libertà deve essere unito; non può essere permesso nessun vuoto nella continuità delle generazioni che lo compongono. La continuità è simbolo dell’unità del popolo; tutto ciò che concerne l’identità collettiva del popolo deve essere preservato e trasmesso di generazione in generazione e pertanto né i giovani, né gli anziani possono essere assenti da una esperienza collettiva trascendentale.

Così come era imprescindibile, in vista della pianificazione del korban nel deserto, poter contare su tutti i membri della nazione, oggi continua ad essere necessario, per la continuità del nostro popolo, che le generazioni che lo compongono mantengano una buona ed armonica connessione.

Qualunque sforzo è giustificato di fronte alla magnifica necessità che questa vicinanza si realizzi e sia più forte grazie all’azione di ognuno di noi.

Parashat Tetsavé – Cos’è un Tempio se non una concessione di Dio alle necessità dell’uomo?

di Rav Eliahu Birnbaum

Non è irrilevante, in un’epoca nella quale non abbiamo il Bet HaMikdash, studiare i particolari della Torà circa la costruzione ed il funzionamento del santuario. Il concetto ebraico riguardante il santuario è inevitabilmente legato alla concezione ebraica del “luogo”: il luogo nel quale si offre ciò che si possiede, uno spazio sacro nel quale ci si consacra per quello che si è. Al di là della distanza storica e, conseguentemente, psicologica che ci separa dal Mishkan e dalle regole relative alle offerte ed ai sacrifici, è necessario studiare il Mishkan, il santuario che i nostri antenati hanno costruito nel deserto, perché quelle pagine della torà contengono una infinità di insegnamenti che conservano intatto il loro valore fino ai nostri giorni.

 

Il Mishkan non era solo il centro della convergenza delle offerte rituali, bensì il fondamento della memoria del popolo. Un centro spirituale il cui scopo e la cui missione erano quelli di mantenere viva nel popolo di Israele la coscienza dei suoi legami e degli obblighi acquisiti ai piedi del monte Sinai. Il Mishkan era un santuario che il popolo portava con sé ovunque si recasse. Non è Dio a richiederlo ma sono gli uomini, perché sono stati loro a costruirlo quale strumento di comunicazione tra ciò che è puramente spirituale e l’esistenza quotidiana, umana, temporale.

Il Mishkan è una concessione di Dio alla natura dell’uomo: Colui che ci ha redenti ha concesso alle nostre debolezze un elemento che ci ricordi i nostri obblighi trascendentali.

Il Mishkan include, a sua volta, quasi tutti gli elementi che ritroviamo nello spazio chiuso di una casa: un tavolo, un arca o armadio, un lavabo, un candelabro…; tutto, al di fuori degli spazi e degli elementi nei quali risposare, è comune sia all’arredo di una casa qualunque che alla “Casa” di Dio. Questa similitudine ci insegna che ogni casa, ogni abitazione, deve e può – nella concezione ebraica –   tendere ad imitare un santuario. Il “baal habait”, il padrone di casa deve fare in modo che la sua casa abbia lo stesso grado di purezza, di spiritualità, di propensione alla giustizia, etc. del Mishkan. All’inverso l’equiparazione fisica tra il santuario e la comune dimora ci insegna che l’uomo può e deve sentirsi nel Mishkan come se fosse a casa propria.

L’assenza di spazi ed elementi in cui riposare, dà l’impressione che la visita di ogni uomo al Mishkan sia sempre qualcosa di nuovo, di vibrante e fresco. Il dinamismo ed il cambiamento sono l’unica costante nel permanente rinnovamento spirituale che ispira la Torà. Una camera, intesa come spazio per dormire, rappresenta ciò che è fisso ed immutabile, mentre il Mishkan deve essere un luogo di permanente rinnovo spirituale per l’uomo ebreo.

Nei nostri tempi sono assenti sia il Mishkan che il Bet HaMikdash, quindi non abbiamo nessun luogo al quale attribuire una tale sacralità, in cui portare a compimento il nostro legame con il Creatore. Proprio per questo abbiamo creato il Bet HaKnesset, il “luogo della riunione”, il piccolo santuario al quale abbiamo assegnato le funzioni che una volta concepivamo ed accettavamo come le più importanti del nostro destino. Il Bet HaKnesset è per noi il luogo delle preghiere, dello studio, della riflessione; è il luogo nel quale, esclusa la possibilità del riposo, l’uomo si deve sentire come nella sua propria casa.