Come si raggiunge la giustizia? – Paraszat Devarim

Rav Eliahu Birnbaum

Con questa parashà comincia il quinto ed ultimo libro della Torà. Preparando il suo distacco, Moshé offre l’eredità spirituale che lascerà al suo popolo. “Ed in questa occasione ordinerete ai vostri giudici: Vi occuperete dei vostri fratelli e giudicherete con rettitudine tra l’uomo ed il suo fratello e lo straniero che abiterà con esso. Per i giudici non ci sarà nessuna differenza tra le persone, giudicheranno sia l’umile che il potente. Non temeranno nulla perché il giudizio è di Dio.” La strutture che dovranno dirigere la vita del popolo di Israele sono sintetizzate in questo modo da Moshé.

La giustizia – impariamo dalle parole di Moshé – non è garantita dalla sola esistenza di avvocati e giuristi, ancor meno dalle abilità retoriche. Ma al contrario la giustizia nasce e si sviluppa dal mero fatto che un giudice si “occupi” e si relazioni con la realtà del suo prossimo e interpreti la legge in base alla realtà concreta che deve affrontare.

In ebraico la parola lehaazin, occuparsi, nutrire, nasce dalla stessa radice di equilibrio, “izun” ed ascolto “ozen”. Da cui comprendiamo che l’equilibrio fisico sta nell’ascolto; d’altro canto avere una bocca e due orecchie significa che un atteggiamento equilibrato nell’uomo è contrassegnato dalla necessità di ascoltare, comprendere, occuparsi, il doppio rispetto a ciò che si dice.

A questo punto sorgono alcune osservazioni. Rashi avverte che “l’attenzione” in quanto premessa fondamentale per la giustizia, si coniuga solamente al tempo presente. Aver prestato attenzione in passato, “ti ho già ascoltato”, o promettere l’attenzione in futuro, non sono varianti dello stesso concetto: l’attenzione comporta aver coscienza che le necessità del prossimo cambiano permanentemente. L’attenzione deve essere un processo ininterrotto, definito dalla necessità del prossimo e non dal tempo che fa comodo a noi.

“Vi occuperete dei vostri fratelli” inizia cosi a parlare Moshé. Per poter realmente occuparsi del prossimo deve esistere un legame di fratellanza che ci unisce gli uni agli altri. Il conflitto tra le persone ha una sua base, secondo questa concezione, nella distanza biologica, culturale, ideologica etc., che non permette di vedere nel prossimo un fratello e impedisce di immedesimarsi nella realtà che ci circonda.

Continuando, Moshé prescrive che uguale attenzione debba essere prestata a tutti gli uomini, senza distinzione di nessun tipo: “all’umile ed al potente”; tutti devono essere ascoltati ugualmente. Da questa precisazione il Talmud trae la regola “Dina prutà kedin meàh”, il giudizio per uno vale come il giudizio per cento: ogni caso è importante per la persona che lo presenta, indipendentemente dal valore oggettivo di ciò di cui si sta discutendo.

Vediamo come, in ebraico, l’attenzione sia legata all’ascolto. La giustizia si realizza ascoltando il prossimo ancor più sulla base di ciò che si vede. Le parole, la voce di una persona, provengono dall’anima e l’ apparenza esterna non riflette obbligatoriamente la realtà.

Moshé conclude la sua spiegazione: “Non temano nulla, perché il giudizio è di Dio.” Se l’atto della giustizia si realizza camminando nelle giuste strade, chiunque giudica non deve temere. Il timore e l’insicurezza nel giudizio derivano dalla mancanza di informazioni, dalla possibilità di non aver ascoltato, di non essersi occupati, quanto sarebbe stato necessario. Le leggi della Torà provengono da Dio e si applicano agli uomini. Sono segni che si adattano ad ogni esistenza, le cui possibilità di esegesi ed applicazione non sfuggono a nessuna realtà. Quando un uomo giudica in accordo alle leggi della Torà, sta applicando la morale Divina, in definitiva si responsabilizza come artefice della giustizia di Dio sopra la terra.

Ogni processo ha bisogno di un leader diverso – Parashat Vaetchannan

Rav Eliahu Birnbaum

Il popolo di Israele si appresta ad attraversare il Giordano e ad entrare nella Terra promessa. In quel luogo la sua vita cambierà e si dovrà confrontare con sfide mai conosciute prima. Questo è il momento culminante di tutto il percorso che, lungo i quaranta anni del deserto, darà luogo ad una nazione, partita come popolo di schiavi.

Da quel momento in poi la vita sarà diversa, il confronto quotidiano si relazionerà con le normali necessità di un popolo e non più con il rischio dell’imprevedibile. Per questo anche le strutture della leadership e del potere dovranno cambiare.
Moshé era cosciente di tutto questo. Egli era stato il visionario, il sognatore che aveva insegnato ad un intero popolo una utopia che stava per divenire realtà. Aveva guidato la liberazione di un popolo che non aveva voglia di essere liberato e lo aveva guidato attraverso il deserto, per tappe dove tutte le necessità vitali della sua gente furono soddisfatte in modo miracoloso.

In tutti questi anni Moshé ha esercitato il potere appellandosi alla fede, al pensiero magico, alla aspettativa di una vera e collettiva redenzione.

Ora Moshé, rivolto a Dio, dice: “ti imploro di lasciarmi passare perché possa contemplare la terra buona che c’è all’altro lato del Giordano” e rivolto al popolo soggiunge: “Ma l’Eterno era irritato con me per colpa vostra e non mi ha ascoltato. E mi ha risposto: Sali sulla cima del “Pisgà” e alza la tua vista ad occidente, al nord, verso sud e verso oriente e guarda fin dove riescono a vedere i tuoi occhi perché non passerai questo Giordano”.

In questo momento Moshé sapeva che la struttura del potere avrebbe dovuto cambiare al momento del passaggio del Giordano, era cosciente che non avrebbe continuato ad esercitare la sua leadership e per questo aveva fatto in modo che avvenisse la scelta in vita di Yeoshua, suo successore. La sua richiesta al Creatore aveva come obiettivo la realizzazione di un sogno ampiamente alimentato e perfezionato: Moshé era pronto ad entrare nella Terra di Israele come un uomo qualunque, come una pecora del gregge che sarebbe stato guidato dal suo successore.

Da qui capiamo che ogni epoca, ogni momento storico, ogni contesto – in ultima analisi ogni processo di cambiamento – necessitano di un leader con doti appropriate. In caso contrario si crea disorientamento e si disperdono le forze; colui che guida e coloro che son o guidati procedono per sentieri divergenti e non esiste sintonia tra le loro tattiche e strategie.

Il leader deve proiettarsi nel tempo presente, nella reale situazione, pur facendosi carico del peso della memoria. Perciò, concludono i nostri saggi, non fu un vero e proprio “castigo” l’impedire a Moshé di entrare nella Terra, ma era l’unico modo con il quale si poteva evitare che il “passato” interferisse nel nuovo percorso che attendeva il popolo di Israele e che era simboleggiato dal passaggio del Giordano: un percorso che implicava diverse sfide e quindi un diverso leader.

La gravità del “castigo” si mitiga, allo stesso tempo, con il permesso che il Creatore concede a Moshé di “guardare” la terra che non potrà raggiungere. La singolarità umana di Moshé si connette con la singolarità della Terra, ed egli “vede” quella “terra” che si scopre interamente di fronte a lui nel suo meraviglioso splendore. Il “sogno” conserva il suo carattere di realtà alternativa, di un universo estraneo alla coscienza ordinaria, che però consente una ratificazione sensoriale da parte dello spirito di Moshé. Come dire: “ Tu non sei entrato in me, ma io entro in te attraverso la porta dei tuoi occhi.” E la coscienza di Moshé può adesso riposare in tranquillità perché l’immagine del sogno si è trasformata in realtà.

Il rispetto per le minoranze – Parashat Ekev

Rav Eliahu Birnbaum

In questa parashà veniamo istruiti sul rispetto con il quale si devono trattare le minoranze che vivono all’interno della società ebraica. E ciò vale come esempio per insegnarci il rispetto per le minoranze in generale, cosa che significa parlare dell’inalienabile diritto alla differenza.

“Dio fa giustizia dell’orfano e della vedova e ama lo straniero che vive tra di voi, dandogli pane e abbigliamento. Voi dovrete amare lo straniero perché voi foste stranieri in Egitto.” E la Torà in seguito afferma: “ Amerai l’Eterno tuo Dio…”
La Torà si riferisce con questo precetto a tutti coloro che si trovano in una condizione di minoranza o in inferiorità: l’orfano, la vedova e lo straniero, coloro che appartengono ad un altro popolo o un’altra nazione, che sono fedeli di un’altra religione, che sostengono un’altra idea o appartengono ad un altro schieramento politico: tutti coloro che, in definitiva, sono “diversi” ma abitano nella stessa terra in cui noi siamo la maggioranza.

Questo precetto è quello che è ripetuto il maggior numero di volte nella Torà. Per ben quarantadue volte ci viene detto di rispettare la minoranza e il debole. I nostri saggi hanno addotto due motivazioni per spiegare la necessità di tale reiterazione: la prima è la rilevanza di un precetto che riguarda le relazioni umane e regola la vita di una comunità; la seconda perché si tratta di un precetto “molto facile da dimenticare”, trascurare o eludere, invocando argomenti il cui carattere fallace non è sempre facile scoprire.

La Torà espone a sua volta alcuni motivi per i quali è fondamentale questo rispetto. Il primo motivo è di carattere religioso: si tratta di rispettare tutti coloro che Dio, a Sua volta, rispetta ed aiuta. Facendolo seguiamo nel cammino di Dio. Ci viene insegnato che il “cammino umano” per assomigliare a quello di Dio deve essere un cammino morale e la sua essenza non si trova in lunghe preghiere o digiuni. Dio è il Padre di tutti gli uomini ed esige il rispetto per tutte le creature che furono da Lui create a Sua propria immagine ed in accordo con la Sua immagine. Lo straniero merita il nostro amore e rispetto, analogo a quello che professiamo nei confronti di Dio. Il secondo motivo che la Torà ci offre per compiere questo precetto fa appello alla nostra umanità ed alla nostra memoria. Ci viene ordinato di rispettare colui che si trova in condizione inferiore perché noi stessi siamo stati stranieri e siamo stati schiavi in Egitto.

Molto spesso accade che la sofferenza indurisce il cuore di una persona: in tal caso l’aver sofferto non induce a comportarsi con amabilità e giustizia nei confronti di coloro che vivono ciò che noi stessi abbiamo vissuto, ma esattamente il contrario. La Torà ci fa notare che, essendo passati per l’esperienza della schiavitù, dobbiamo identificarci con coloro che soffrono in analoga condizione.

L’esperienza dell’Egitto dovrebbe insegnarci la sensibilità umana e morale che è, in realtà, l’essenza dell’Ebraismo e che dovrebbe essere in noi connaturata. Oggi, questo insegnamento ha una valenza speciale, in quanto il progresso scientifico e tecnologico del nostro tempo non sembra aver contribuito al mutuo rispetto e alla concordia né a far sì che il diritto alla differenza sia maggiormente rispettato. Continuamente vediamo e viviamo manifestazioni che provano quanto poco sia avanzata l’umanità nelle attitudini che nobilitano la stessa condizione umana.

La responsabilità dei padri verso i figli – Parashat Ki Tetze

Rav Elihau Birnbaum

Questa parashà è, sicuramente, una delle più strane della Torà. Il suo tema centrale è la deviazione morale di un figlio di buona famiglia, un figlio che presumibilmente non ha avuto una infanzia difficile, che non ha sofferto grandi crisi familiari e che ancor meno ha subito carenze importanti nella sua educazione.

“Se qualcuno dovesse avere un figlio disobbediente e ribelle che non presta attenzione a quello che gli dicono i suoi genitori e che non obbedisce loro quando viene punito, i suoi genitori dovranno portarlo al tribunale degli Anziani della città…” e, dopo che siano state provate le sue trasgressioni, dovrà essere lapidato-secondo quanto stabilito dalla Legge, fino alla sua morte. Se la Torà avesse stabilito che questa norma come inappellabile non avremmo avuto possibilità di scelta o di opposizione. La Torà, al contrario, stabilisce che i saggi di Israele possano interpretare o restringere la Torà stessa e conferisce loro la prerogativa di far applicare la Legge nelle diverse circostanze.

La Torà non specifica chi sia colui che “non ascolta i suoi genitori”. Quand’è che la trasgressione supera i limiti consentiti? Si parla di uno che attacca i propri genitori, che ruba, che si ubriaca, che si droga? Si riferisce a chi è totalmente fuori dal controllo? Ovviamente non si tratta di chi ha solo un problema di condotta. I nostri saggi interpretano che quanto esposto nella Torà – cioè che il figlio è condannato dal tribunale alla pena di morte per lapidazione – abbia come unico obiettivo quello di essere analizzato e di costituire un esempio, ma non deve mai essere applicato alla realtà. La condizione di una persona in un dato momento deriva da una molteplicità di fattori, di opzioni, di interazioni con la società e con il contesto familiare nel quale si è sviluppata ed è cresciuta. A quale deviazione si riferisce la Torà quando parla del tipo di figlio ribelle e condannabile a morte dal tribunale?

In considerazione della responsabilità che implica per un tribunale l’emettere una sentenza di condanna a morte, i saggi del Talmud hanno elaborato una serie di circostanze per la quali un tribunale deve retrocedere e dichiararsi umanamente incapace di sentenziare. Secondo i nostri saggi, considerare completamente colpevole un “figlio disobbediente e ribelle” se non è stato cresciuto da sua madre e suo padre insieme (in caso di divorzio o di assenza di uno di essi) o se uno dei due è invalido o “cieco” o “sordo” o non ha trasmesso un messaggio coerente per la sua educazione. Se uno dei genitori è assente o se hanno divorziato ed il figlio vive con uno solo di essi è molto difficile che il bambino riceva una educazione armoniosa e completa. Se uno o entrambi i genitori sono invalidi non potranno far valere compiutamente la loro autorità. Genitori ciechi o sordi sono coloro che non ascoltano le inquietudini dei loro figli, nonne percepiscono la necessità di amore ed affetto, non intervengono quando è necessario e quindi non soddisfano le loro necessità.

Un gran rischio nella educazione dei figli è la cecità e la sordità di fronte ai segnali che i genitori dovrebbero cogliere.

In conclusione, solo se i genitori trasmettono ai loro figli un messaggio coerente e convergente, solo se esiste una piena armonia sia nella vita fisica che spirituale della famiglia, si potrà accusare il figlio. Se le cose non stanno in questo modo egli non potrà essere responsabilizzato per la sua condizione.

Di fatto, i saggi sono giunti alla conclusione che il caso tragicamente estremo del figlio ribelle condannabile a morte come previsto dalla Torà è inapplicabile alla realtà, poiché in ognuno di noi si possono trovare forme di cecità e di mancanza di attenzione per i figli e per la realtà che li circonda.

L’armonia completa è impossibile: ci saranno sempre fattori eterni che inevitabilmente influiranno sulla educazione e sviluppo del bambino.

Il linguaggio dei simboli e i rituali ebraici – Parashat Kitavo

Rav Eliahu Birnbaum

I segni costituiscono un linguaggio attraverso cui individui e culture traducono la realtà e le esperienze. Il sistema dei segni e dei simboli che appartiene ad una comunità culturale è il linguaggio che permette di collocare quanto all’interno di se stessa ed intorno a sé in una mappatura preesistente e che può essere mutata dal labirinto della vita.

La Torà si occupa in questa parashà di stabilire i simboli che dovranno guidare l’interpretazione che il popolo di Israele darà alle sue realtà e alle sue esperienze. La stessa vita dell’ebreo moderno è basata sui simboli ereditati dalla Torà, tradotti in ogni generazione nel segno referenziale della sua vita reale. In questo modo ogni parola ed ogni atto, ogni festività ed ogni suono sono partii di questo linguaggio peculiare che costituisce il subcosciente di tutti gli ebrei e al quale essi si richiamano di continuo.

La maggioranze degli ebrei del nostro tempo non approfondisce il significato o la ragion d’essere di molti dei propri rituali, però è il valore simbolico che essi conservano che sostiene la volontà di osservarli, evocando una tradizione lasciata dalle generazioni precedenti. Tutti i sentimenti umani si traducono in simboli, in un linguaggio che trasla (tale è il significato del termine “metafora”) ogni azione quotidiana ad un livello che trascende l’esperienza individuale e la connette con la vita millenaria di una nazione ed una cultura, fatta di lingue, rituali, aromi e colori.

“E sarà nel giorno in cui passerete il Giordano verso la Terra che l’Eterno tuo Dio ti dona, che porterai per te grandi pietre e scriverai su di esse tutte le parole della Legge con molta chiarezza.” Questo è il primo simbolo a fondamento della cultura ebraica. Il popolo di Israele riceve l’ordine di costruire e incidere queste pietre prima di entrare nella Terra di Israele: l’elemento materiale che si riporterà la ragione d’essere di tutta la conquista precedente. Il linguaggio orale con il quale Moshé aveva istruito il popolo diviene insufficiente quando si deve entrare in azione. Moshé intendeva dire che l’uomo ha bisogno di simboli materiali ai quali riferirsi, che possano costituire una bandiera con la quale identificarsi ed attraverso la quale rappresentare i propri sentimenti e le proprie credenze.

“E scriverai nelle pietre tutte le parole della Legge con molta chiarezza”. Scrivere con molta chiarezza fa riferimento alla necessità di universalizzare il simbolo: questo non sarà riservato ad una elite, ma dovrà essere un riferimento immediato per ogni individuo della comunità. Il Talmud interpreta che la totale chiarezza della quale parla il comandamento implichi un richiamo ad un linguaggio che sia inteso da tutte le persone. La Legge fu scritta, secondo la spiegazione dei nostri saggi, in settanta lingue con settanta “volti” in modo che ognuno si potesse vedere riflesso in ognuna di essi.

Da questo principio osserviamo che gli insegnamenti della Torà non sono diretti esclusivamente al popolo di Israele. Pur astenendoci da qualunque forma di proselitismo, portiamo il suo messaggio in modo che sia accessibile ad ogni persona o ad ogni popolo che desidera avvicinarsi ai valori della Torà e della cosmogonia.

Le pietre di cui si parla in questa parashà, su cui è incisa la legge, si trasformarono in simboli universali, soggetti alle interpretazioni che ogni cultura avrebbe dato ad essa e, allo stesso tempo, saranno anche un simbolo individuale per ogni componente del popolo di Israele.

Il Tanach è la continuazione di queste pietre incise con le leggi basilari della Torà. Ed in quanto tale si è trasformato un libro universale, tradotto al giorno di oggi in 1710 lingue e dialetti che lo hanno reso accessibile a tutte le culture del mondo.

Il patto di ognuno di noi – Parashat Nitzavim

Rav Eliahu Birnbaum

manosOgni cultura concepisce forme divers di relazione ed impegno tra le persone e le istituzioni. Noi ci rapportiamo alle persone ed alle istituzioni, per iscritto o oralmente, sia attraverso le emozioni, che l’intelletto, che la legge. In questa parashà la Torà pone di fronte a noi una formula diversa di impegno: il Patto.

“Tutti voi siete oggi presenti di fronte l’Eterno vostro Dio: i vostri capi, i vostri anziani ed i vostri giudici, con tutti gli uomini di Israele; i vostri figli, le vostre mogli e gli stranieri che vivono nel vostro accampamento, dal tagliatore di alberi fino al raccoglitore di acqua, per entrare nel Patto con l’Eterno vostro Dio e nel giuramento con il quale Dio si impegna con te. Con esso Egli ti consacra oggi come Suo popolo, essendo Egli il tuo Dio come lo ha giurato a te, ai tuoi padri, Abraham, Itzhak e Yaakov. Però non solo con voi ha stabilito questo patto, ma anche con coloro che non sono presenti oggi qui.”

Il Patto che formula la Torà prevede la necessità di due parti, chiaramente differenziate ed obbligatoriamente presenti, che accettano il patto in modo esplicito. Da un lato abbiamo Dio, dall’altro il popolo di Israele composto da persone che, nel momento in cui viene stipulato il Patto, si rivolgono a Dio al singolare come se fossero un unico individuo. Il patto si realizza sempre tra due parti che mantengono la loro indipendenza ma che non sono obbligatoriamente uguali o reciprocamente equivalenti. Il concetto di Patto è applicabile al rapporto tra Dio e l’uomo, a quello di un uomo con sua moglie, a quello tra due uomini o a quello tra istituzioni con usi ed ideologie differenti: due uomini o entità “uguali” non hanno bisogno di un patto. Sarebbe inutile fare un patto con se stessi.

A differenza di quanto accade per i contratti, le norme e le leggi – tutte queste sono formulazioni umane di relazioni a termine – il Patto è fondato sul concetto di fedeltà al di sopra dei benefici. Un patto necessita e stabilisce un impegno comune ed un obiettivo al quale tendono i contraenti – che diventano alleati – a cui vengono subordinati gli elementi di differenza.

Il mondo nel quale viviamo ha contribuito a debilitare nel popolo ebraico, il concetto e la conseguenza del patto. Le relazioni interpersonali e tra le istituzioni si basano su norme e contratti che variano in funzione delle circostanze. Di fatto gran parte della crisi dell’Ebraismo nel mondo post-moderno deriva dall’assenza del “patto” nella vita quotidiana degli ebrei, l’indebolimento della loro connessione con l’Ebraismo, con il resto del popolo ebraico, con la memoria collettiva, con la Diaspora e lo Stato di Israele.

Allo stesso modo, gran parte della soluzione alla crisi generale che affrontiamo sta in un rinnovamento individuale di ciascuno del “patto” ereditato, quale mezzo per tornare ad avere una identità collettiva forte e sana, che sia valida per tutti noi e renda valido quel patto che, in ogni momento della nostra vita, ci ha protetto e ci protegge, ci ha impegnato e ci impegna.

Preparativi per una nuova realtà – Parashat Vaielech

Rav Eliahu Birnbaum

“E Moshé disse queste parole a tutto Israele: oggi ho cento e venti anni e non posso più uscire ed entrare. Inoltre Dio mi ha detto: “Tu non passerai il Giordano (…) Yehoshua mi sostituirà e continuerà a guidare il popolo…” In questo modo Moshé dà il suo addio al popolo di Israele a metà del cammino che aveva sognato e per il quale aveva loro insegnato a camminare. Moshé vive in questo momento una delle più grandi frustrazioni che può sperimentare un uomo, come il padre che prepara i suoi figli per la vita però è assente nel vedere i risultati dei loro sforzi.

Ogni situazione di rinuncia è traumatica per quanto sia stata attesa e programmata. La perdita di Moshé non giunge improvvisa ma è stata minuziosamente preparata in ogni dettaglio; ciò non attenua per il popolo la traumaticità e la difficoltà della situazione.

La condotta di Moshé nel momento in cui prende commiato dal popolo è esemplare. Moshé non intendeva pronunciare il suo addio da “pulpiti e balconi” né con grandi discorsi, bensì cercando una volta ancora il contatto personale con il popolo che aveva guidato. Non era il leader che ai nostri giorni sarebbe apparso nei comizi in epoca elettorale, per trasmettere ai posteri una immagine attraverso i flash ed i microfoni: per lui, il contatto quotidiano con la sua gente non era un mezzo carismatico per ottenere l’adesione delle moltitudini, ma un cammino sincero per comprendere ed occuparsi delle necessità del suo popolo.

Esiste una seconda lettura dell’attitudine di Moshé, la cui franchezza non nasconde il suo carattere genuinamente pessimista rispetto alla relazione tra governante e governato. Moshé si rivolge al suo popolo, probabilmente anche perché il suo popolo non si rivolge a lui. Moshé stava concludendo la sua funzione di dirigente e il popolo si preparava ad elaborare la sua relazione con il “nuovo governo” che avrebbe assunto la responsabilità di guidarlo.

A nulla valevano, in questo frangente, i quaranta anni di storia che erano trascorsi: essi avrebbero avuto un loro valore, in tutta la loro grandezza, molto più avanti.

Anche nella società dei nostri giorni accade qualcosa di simile, giustamente o ingiustamente, per molti dirigenti quando giungono al termine della loro missione. A volte sono essi stessi che si ritirano, in altre occasioni è la stessa società che li consacra o li dimentica, modi entrambi per prendere le distanze da loro e dalla loro realtà.

Questo è il caso, nello Stato di Israele, di Ben Gurion, di Menachem Begin, che si ritirarono a vita privata una volta compiuta la loro funzione pubblica o quello di Aba Eban, nei cui confronti l’opinione pubblica, a un certo momento ritirò la fiducia. Dovremmo chiederci la ragione di tali fenomeni formalmente identici dai tempi di Moshe fino ai nostri giorni.
Perde valore il messaggio di un leader quando questo abbandona l’orbita del potere? O non sarà che la società orienta le sue relazioni in base alla convenienza della congiuntura e tanto l’oblio quanto la “totemizzazione” di un leader, permettono di gestire la nuova realtà senza la sua interferenza?

L’uomo creatore – Parashat Bereshit

Rav Eliahu Birnbaum

Questa parashà dà inizio alla lettura della Torà, offrendoci l’opportunità di un nuovo ciclo di studio e di apprendimento dei testi biblici.

Bereshit è il libro della Creazione del Mondo e del primo Uomo così come della nascita del primo ebreo. E’ il libro nel quale il Creatore si manifesta, dando forma e movimento al suo sguardo tridimensionale sul mondo e generando una creatura primordiale che si caratterizza per essere fatta a Sua immagine e somiglianza: l’uomo è creativo per definizione, rispetto a colui stesso che lo ha creato.

La prerogativa dell’impulso creativo non appartiene a nessuna altra creatura all’infuori dell’uomo. I lavori di tipo creativo compiuti da diverse specie animali sono prevalentemente di tipo utilitaristico e volti a conseguire un vantaggio immediato: gli animali possono costruire una tana ed accumulare cibo per l’inverno, ma la loro creazione non supera i limiti della soddisfazione dei bisogni basilari. L’uomo creato “ad immagine e somiglianza” del suo Creatore, è spinto verso una vita di costante azione e creazione. L’uomo rispecchia il suo Dio nella creazione, nella costruzione, nella formazione e nell’ azione che attua nel corso di tutta la sua vita.

L’uomo deve essere effettivamente cosciente della propria condizione di creatore sia nell’ambito materiale che in quello spirituale; ciò è ben lontano dal trasformalo in Dio, ma lo rende degno della sua condizione umana. La missione dell’uomo sulla terra consiste nel perseguire la perfezione archetipica del progetto del Creatore. Noi siamo creatori a nostra volta, proiezioni temporali della Sua Maestà, strumenti temporali dell’Assoluto.

L’uomo ha la capacità di “creare” la luce, estraendo energia dalla materia per illuminare le tenebre. Per completare la sua missione, può e deve governare le forze del mondo minerale, vegetale e animale al fine di organizzare il cosmo, partendo dal caos primordiale nel quale è stato posto. Così, secondo le capacità e le inclinazioni di ciascuno, siamo capaci di creare in ambito intellettuale, nell’arte e nella scienza applicata, dando dignità alla vita della nostra specie, imparando a trasformare la natura in strumento di armonia, in tecnologia e in mezzo per superare le barriere che sono state poste al nostro intelletto e nella natura, proprio al fine di stimolarci a superarle.

La scelta si impone ad ognuno di noi e, più ampiamente, alla cultura alla quale apparteniamo ed al cui sviluppo contribuiamo, anche con le azioni più banali dell’agire quotidiano. Possiamo essere meramente guardiani del mondo, ponendoci su una torre solo per osservare il regno su cui esprimiamo una sterile maestà. Oppure possiamo adottare l’attitudine contemplativa di uno spettatore intelligente e apprendere scientificamente i meccanismi che regolano il mondo nel quale viviamo, evitando tuttavia un nostro intervento che potrebbe modificarlo. Ma la collocazione che ci renderà chiaramente umani in armonia con le capacità che possediamo non è tra quelle precedenti: lo spirito dell’ “imitatio dei”, imitazione di Dio, consiste nel trascendere lo stadio primordiale ed intervenire responsabilmente per controllare la natura e guidarla verso l’obbiettivo che solo noi, tra tutte le creature che ci circondano, siamo capaci di individuare e di perseguire.

L’Uomo che trascende se stesso – Parashat Vaierà

Rav Eliahu Birnbaum

Abramo, in questo momento della sua biografia, si presenta come un libero pensatore che può, con onestà, rifiutare le concezioni di vita della maggioranza della popolazione della sua epoca: un uomo coraggioso, anticonformista, che non si arrende al conformismo e non ha paura di confrontarsi con il mondo culturale e sociale in cui è inserito. Abramo è al tempo stesso un guerriero ed un uomo che si prodiga per la propria famiglia, per il prossimo e per la società intera. Si tratta di un uomo eccezionale che si pone dilemmi e domande perché vuole capire.

Ci troviamo, in un primo tempo, di fronte all’episodio nel quale appaiono tre sconosciuti che attraversano la terra di Abramo ed egli li implora che accettino la sua ospitalità. La sua ospitalità è assolutamente spontanea in quanto per lui sarebbe stato profondamente innaturale non offrire cibo e riposo a coloro che passavano nei pressi della sua dimora. La necessità di giustizia e la vocazione nel servire gli altri sono presenti in tutti i momenti cruciali della sua vita.

In questa parashà Dio ha deciso di distruggere le città di Sodoma e Gomorra ed Abramo lo interroga: “Per caso il Giudice supremo non farà giustizia?” e, per così, dire lo sfida a rispondere circa i cinquanta giusti che potrebbero trovarsi nella città. Lungo il percorso che lo porta a ridurre via via il numero di giusti, Abramo dimostra di preoccuparsi dell’eventualità che venga commessa un ingiustizia anche soltanto nei confronti di un solo essere umano. Finalmente Dio accetta di perdonare la città di Sodoma nel caso in cui vi fossero stati in essa dieci persone giuste. Ma nonostante il dolore che prova, Abramo sa che i disegni divini sono imperscrutabili.

Quando gli angeli – perché questi erano i realtà gli uomini che Abramo aveva ospitato – arrivano a Sodoma, Lot, nipote di Abramo, offre loro ospitalità. Tutti gli abitanti di Sodoma vorrebbero rapirli per far loro violenza ma, di fronte alla impotenza di Lot nel risolvere la situazione, gli angeli stessi gli ordinano di prendere sua moglie e le sue due figlie e si preparano, in nome del Creatore, a distruggere la città e ad uccidere i suoi abitanti. Un ennesima volta vediamo qui la verticalità dell’opera della mano di Dio nel momento in cui risolve una crisi. Mentre Sodoma e Gomorra sono distrutte tra zolfo e lapilli, Lot si preoccupa che nessuno della sua famiglia si volti indietro; ma sua moglie cede alla tentazione e disobbedisce all’ordine ed immediatamente viene tramutata in una statua di sale.

Gli angeli avevano annunciato ad Abraham e a Sara che in capo a poco tempo avrebbero avuto un figlio. Sara, considerando la sua età avanzata, aveva riso alla sola idea che ciò potesse accadere. In effetti, dopo qualche tempo Sara si ritroverà incinta e darà alla luce un bambino che Abramo chiamerà Isacco. Creando una linea di continuità con il patto di parola e sangue che aveva stabilito con il creatore, Abramo circoncide suo figlio agli otto giorno dalla nascita.

Passa del tempo ed il Creatore mette una volta ancora alla prova la devozione di Abramo chiedendogli il sacrificio di suo figlio e dimostrerà la sua misericordia e il suo rifiuto verso una morte inutile accontentandosi della sola intenzione di Abramo e non permettendogli il sacrificio della sua unica e ineguagliabile discendenza.

La testa in cielo e i piedi ben piantati sulla terra – Parashat Vayetzé

Rav Eliahu Birnbaum

Yaakov fugge dalla casa dei suoi genitori per il timore della vendetta di suo fratello Esav e cammina fino al confine della terra di Canaan. Al calar della notte decide di pernottare e continuare il suo cammino al mattino successivo, appoggia la sua testa su una pietra e dorme e sogna…. Questo sogno di Yaakov è uno dei capitoli di maggiori ampiezza e profondità simbolica dell’intera Torà.

L’ingegno e le capacità intellettuali di molti rabbini hanno “giocato” con la quantità e la originalità delle interpretazioni che si possono dare a questo momento onirico di illuminazione. Questo sogno, con le sue diverse esegesi, si configura come una delle colonne della Cabalà, l’interpretazione che studia e pratica i misteri della Torà.

“Giacobbe partì da Beersheva e si diresse verso Charran. Capitò così in un luogo, dove passò la notte, perché il sole era tramontato; prese una pietra, se la pose come guanciale e si coricò in quel luogo. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa.”

Un sogno e soprattutto un sogno che si può ricordare facilmente, è un qualcosa che richiede di essere interpretato. Di solito noi dedichiamo molti sforzi per interpretare le azioni e le parole, i linguaggi esteriori dell’uomo, ma manchiamo di quella sensibilità che è imprescindibile per poter interpretare i sogni.

Il sogno di Yaakov consta di due elementi centrali: la scala e gli angeli che salgono e scendono su di essa. La scala di Yaakov appoggia uno dei suoi estremi sulla terra e l’altro in Cielo. Questo è il fondamento dell’equilibrio perfetto: una armonia poggiata con identica forza sia nel Mondo superiore che in quello inferiore. Per ottenere l’equilibrio con i piedi ben piantati per terra bisogna che la testa abbia la libertà di sognare. Il secondo elemento protagonista del sogno di Yaakov è costituito dagli angeli, l’elemento dinamico della scala che connette il mondo superiore con quello inferiore. Per arrivare in cielo, per raggiungere la migliore sintesi umana con l’archetipo divino, bisogna essere dinamici ed attivi. Dio sta in vetta alla scala, sostenendo il suo punto superiore, e l’uomo si incontra alla fine di essa: entrambi sono soci nell’impresa di arrivare all’obbiettivo prefissato.

La scala di Yaakov ci insegna che la vita deve essere concepita più verticalmente che orizzontalmente. La vita non è un orizzonte piano e piatto, la vita è una montagna immensa piena di ostacoli, sfide e separazioni con cui l’uomo è chiamato a confrontarsi per poterle superare.