Il cambio di un nome segna il cambio del destino – Parashat Vaishlach

Rav Eliahu Birnbaum

La vita del patriarca Yaakov è segnata dalla costante dicotomia tra i sogni e la realtà. Quando uscì dalla terra di Canaan, sognò la scala che definiva l’esperienza che avrebbe vissuto fino al suo ritorno, allorché si confrontò con l’angelo divino.

Fin dalla sua nascita egli dovette affrontare difficoltà e conflitti, sia interni che connessi col mondo che lo circondava: litiga con suo fratello prima del parto, compra la primogenitura, partecipa all’inganno della benedizione di suo padre, difendendo il suo diritto alla primogenitura acquistata si vede costretto a fuggire verso Haran. Lì lavora per quattordici anni nell’azienda di Lavan che lo inganna dandogli come sposa Lea invece di Rachel. Quando finalmente abbandona suo suocero, pieno di tremore ed apprensione va incontro a suo fratello Esav; poi sua figlia Dina subisce violenza, i suoi figli odiano il suo favorito Yosef, il quale “sparisce” ed alla fine discende in Egitto nel mezzo di una carestia e in quel luogo muore.

La vita di Yaakov è un esempio degno di essere studiato per imparare come si debba reagire allorché si corre il rischio di essere sopraffatti dalle difficoltà e dai contrattempi. In questo senso possiamo osservare tre modalità di condotta paradigmatiche:
-La prima è quella dell’ottimismo ingenuo e radicale alla Leibniz: “Le difficoltà non esistono, solo l’immaginazione dell’uomo è responsabile di aver creato il male e le sue conseguenze.”
-La seconda è quella che riconosce la realtà con il suo complesso intersecarsi di elementi positivi e negativi, ma nei suoi confronti si alzano le mani sentendosi impotenti di fronte alle difficoltà incontrate nel proprio cammino.
Entrambi tali modalità nascono comunque da una distorsione della realtà oggettiva o soggettiva e quindi sono pericolose per l’uomo e lo lasciano passivo ed indifeso.
-La terza modalità è rappresentata dalla vita di Yaakov, il quale si confronta costantemente con le sfide che ha davanti, senza mai rassegnarsi e senza mai alzare le braccia in segno di impotenza.
Questa modalità è l’unica che permette davvero di affrontare efficacemente la realtà e di confrontarsi con essa con energia e consapevolezza.

Nel momento cruciale della sua vita, Yaakov ha un vero e duro scontro notturno con l’angelo. In questo racconto si confondono i confini tra sogno e realtà, tra il sognare da sveglio o da dormiente. A noi la situazione si presenta come un sogno, ma tale sogno si proietta luminosamente, con tutte le sue conseguenze, nella realtà. Nel momento in cui, al culmine del sogno, Yaakov cambia il nome in “Israel”, di fatto cambia anche il destino proprio e, con esso, quello di tutta la sua discendenza.

Il popolo e Israele (questo è il nome che ha donato alla sua discendenza invece di Yaakov o Yehuda) fedeli all’archetipo ereditato, hanno sempre dimostrato di saper lottare, confrontarsi e difendersi e ciò vale anche per Israele inteso come entità statuale.

Ed anche oggi succede che il popolo di Israele si trovi solo a lottare nell’oscurità notturna fino a che non giunge l’alba: in quel momento, malgrado appaia ferito e zoppicante a causa del combattimento, Israele è pieno di nuove forze per continuare nel proprio cammino millenario.

La paura del cambiamento – Parashat Vayeshev

Rav Eliahu Birnbaum

Tutti i personaggi centrali di Bereshit sognano: Avraham, Itzhak, Yaakov e persino Yosef affrontano la vita con un piede nella realtà temporanea e l’altro nel mondo dei sogni, del desiderio, della ricerca spirituale e dell’utopia.

 

In questa parashà Yosef si incontra con i suoi fratelli e tale incontro mette in crisi il rapporto tra una realtà tradizionalista e un sogno radicale. I fratelli avevano buone ragioni per odiare Yosef: era ostinatamente il preferito del loro padre, come lui era un sognatore e ne aveva adottato il linguaggio e il modo di pensare; la sua ricerca spirituale era loro estranea.

Tra tutti i conflitti che, a questo punto della sua vita, Yaakov ha già dovuto affrontare, questo è il primo che capita all’interno della sua famiglia. Yaakov ama Yosef più degli altri suoi figli, perché Yosef è il figlio di Rachel, il suo primo e più grande amore e perché egli a sua volta è un sognatore. Nel donargli una tunica a strisce, simbolo di un sentimento ancor prima che di ricchezza, Yaakov rende manifesta la sua preferenza per Yosef e per questo gli altri suoi figli cominciano ad odiarlo fino al punto di non essere più capaci di parlare con lui in modo pacifico.

Ciò che dà fastidio ai fratelli di Yosef non è il valore economico della camicia. Secondo quanto ci spiega il Talmud questa era costata 2 selaim, un prezzo molto basso. Ciò che dà fastidio ai fratelli di Yosef è il valore affettivo dell’oggetto: per creare distanza e rancore tra fratelli non abbiamo bisogno di grandi regali, di auto e di tecnologia, basta una piccola differenza nell’amore che si dimostra: una differenza che spesso non richiede, né tantomeno può, essere spiegata. Considerando il fatto che una tunica possa aver avuto una simile influenza sul destino di Israele, il Talmud conclude che non vi debbano essere differenze né materiali, né affettive nei confronti dei figli, poiché il danno procurato è molto maggiore rispetto al beneficio.

Certamente come buon continuatore del percorso ereditato, Yosef sogna situazioni che lo rendono molto pericoloso per la società e per ciò che in essa è comunemente accettato e stabilito. Questi sogni sono la prosecuzione di quelli di Yaakov. Suo padre sognava scale, angeli, Dio ed il cielo. Yosef in base all’archetipo che eredita, sogna uomini, campi, covoni. Yaakov sognava Dio ed entrava oniricamente in Cielo. Yosef sogna gli uomini e  gli elementi basilari della loro economia, e tali sogni lo porteranno al dominio sulla terra.

Trasformato in nemico pubblico da coloro che difendono il conservatorismo delle strutture e temono il cambiamento, arriva per Yosef il momento in cui deve essere rimosso. I fratelli fanno piani contro di lui, lo sequestrano e lo vendono come schiavo ad una carovana di Ismaeliti. Proiettano immediatamente il loro trionfo sulla tunica, oggetto simbolo del loro odio nei confronti di Yosef: la strappano, la macchiano con il sangue di un agnello e la portano al padre il quale, essendo sicuro che il suo figlio favorito sia stato divorato da una bestia, da quel momento in poi si pone in una condizione di lutto permanente.

Yosef rappresenta l’immagine del rivoluzionario, dell’utopista che invoca e provoca cambiamenti nella realtà. I fratelli, avendo compreso che, in quanto sognatore, egli sollecitava una nuova struttura familiare e sociale, non volevano correre i rischi insiti nei cambiamenti e preferivano continuare sul cammino di una realtà quotidiana e conosciuta, sia nel bene che nel male.

Parashat Vaigash – Le quattro tappe della vita umana

di Rav Eliahu Birnbaum

Questa parashà contiene uno dei passaggi più significativi della Torà da cui possiamo imparare quale debba essere il comportamento dell’ebreo in esilio.

Yosef era giunto in Egitto come schiavo e, dopo sofferenze ed ingiustizie, arriva a conquistare la posizione più potente in quella nazione: da schiavo umiliato diventa un principe, un uomo temuto e rispettato da tutti. E’ la prima realizzazione che troviamo nella nostra tradizione, del sogno che ogni emigrante nasconde in sé, allorché comincia ad integrarsi in una nuova società.

Fino alla fine della parashà precedente, Yosef era sempre stato descritto come un sognatore; ora diventa un amministratore efficiente, freddo e calcolatore. Solo ora, quando Yosef si rivede con i suoi fratelli, possiamo percepire la profondità delle sue emozioni, che in qualche modo ci rimandano al Yosef che abbiamo già conosciuto.

I fratelli di Yosef giungono in Egitto cercando provviste. L’atteggiamento di Yosef nei loro confronti è distante, severo, in alcuni momenti, vendicativo. Per cominciare li accusa di spionaggio e pretende come prova della loro innocenza la presenza di Biniamin, il suo fratello minore, l’unico figlio della sua stessa madre, Rachel. Uno dei suoi fratelli è rimasto in Egitto come ostaggio mentre gli altri sono ritornati da Canaan con Biniamin. All’arrivo di questi Yosef fa nascondere tra i suoi effetti personali una coppa del palazzo; in seguito la scopre, lo accusa di furto, tradimento, ingratitudine e ordina di incarcerarlo. Durante tutti questi avvenimenti vediamo un Yosef distante dalla sua famiglia, estraneo, indifferente, che in certo qual modo, cerca vendetta per le amarezze del passato. Il vincolo familiare gli sembra irrilevante, come se il legame di sangue, la vicinanza fisica vissuta durante l’infanzia, non fossero una ragione sufficiente per una profonda solidarietà e fraternità nel presente.

Un solo argomento fa reagire Yosef e gli fa recuperare il legame nei confronti della sua famiglia. Questo accade quando Yehuda si erge a difesa di Biniamin, chiede che sia liberato e pone una particolare attenzione all’amarezza e al danno irreparabile che la perdita di questo figlio provocherebbe a loro padre Yaakov. Di fronte alla possibilità di essere la causa del dolore del proprio padre, Yosef cambia immediatamente opinione.

Kierkagaard sostiene che la vita umana è scandita da quattro passaggi e cioè: quello della bellezza, quello della moralità, quello del ridere e del cinismo e, infine quello in cui dedicarsi a temi sacri e familiari. Yosef era passato attraverso il periodo della bellezza durante la sua gioventù, in seguito era passato attraverso quello della moralità ed ora, l’incontro coi suoi fratelli, lo porta a concludere quello del riso e del cinismo, e ad entrare nel quarto: quello del recupero della sacralità e del valore della famiglia.

In questo preciso momento, quando Yosef si rivela di fronte ai suoi fratelli, egli piange per la prima volta. Non aveva pianto prima, quando fu buttato nel pozzo, né tantomeno quando fu venduto come schiavo né quando fu incarcerato. Solo di fronte alla presenza del suo fratello Biniamin è sopraffatto dall’emozione e rompe in pianto, chiedendo come stesse suo padre e come stesse la sua famiglia. Yosef è da solo con i suoi fratelli, invia qualcuno a cercare suo padre e, una seconda volta, rompe in pianto. Tutta la durezza e la freddezza accumulata durante i suoi anni come egiziano si dissolvono nel momento stesso in cui torna ad identificarsi nella persona di suo padre, in quel Yaakov che era un sognatore come lui. Dopo molti anni e dopo un duro e necessario percorso di apprendimento, il cerchio si può chiudere e la famiglia si può nuovamente riunire.

Parashà Shemoth – Ciò che definisce una nazione

di Rav Eliahu Birnbaum

Il libro di Bereshit ci ha fatto conoscere una serie di storie individuali di uomini e donne prototipi, le cui vite hanno segnato per sempre la loro discendenza ed hanno avuto grande influenza su di essa. Il libro Shemot che comincia con la parashà che porta lo stesso nome, non si riferisce più a singoli individui ma introduce il concetto di popolo, di un gruppo di individui che condividono una stessa identità.

 

 «Allora sorse sull’Egitto un nuovo re……e disse al suo popolo: “Ecco che il popolo dei figli d’Israele è più numeroso e più forte di noi. Prendiamo provvedimenti nei suoi riguardi per impedire che aumenti”». In questo punto, il termine “popolo” riferito ad Israele, appare per la prima volta, nella bocca del Faraone. Prima ancora degli stessi ebrei, è quindi un estraneo che riconosce l’identità comune di tutta la discendenza di Yaakov, il suo carattere di popolo. I discendenti di Israele avevano sin dal principio una quantità di elementi di coesione che offriva loro una comune identità, però è in uno momento ben determinato della loro evoluzione che si può affermare la nascita di un “popolo”: una identità collettiva nuova, che raggruppa tutti gli individui, senza annullarli, essendo tale collettività qualcosa di distinto dalla loro somma.

Il popolo, per funzionare come tale, deve essere definito tanto all’esterno – ovvero riconosciuto come tale dai suoi pari – quanto al suo interno, rendendo partecipe ognuno dei suoi membri, coscientemente e senza alcuna crepa, della identità collettiva.

Nelle parole della Torà relative alla assunzione da parte di Israele del connotato di popolo, incontriamo diverse particolarità che si riproporranno lungo il corso della sua storia. In un primo momento è il Faraone e non sono gli ebrei a definire l’esistenza del popolo di Israele, così come è sempre lo stesso Faraone che ne determina le caratteristiche di chi ne faccia parte. Valga come esempio di un caso simile, quello delle leggi di Norimberga che decretarono che fosse ebreo colui che, risalendo fino a quattro generazioni precedenti, aveva anche un solo antenato ebreo. Ogni volta che nella storia un ebreo ha sottostimato o dimenticato la propria identità, è stata la storia stessa a farglielo ricordare.

E’ altresì interessante notare che essendo passati solo pochi anni dall’arrivo dei settanta discendenti di Israele in Egitto, il Faraone comincia a vedere che gli ebrei avrebbero potuto diventare numericamente un pericolo per l’integrità della nazione egiziana. E’ un altro “leit motiv” che si sarebbe ripetuto nella storia: i paesi abitati dagli ebrei, tanto oggi quanto in passato, hanno sempre sovrastimato quantitativamente e qualitativamente gli ebrei che vivevano in essi, cosa che spiega il sorgere del timore della cospirazione ebraica e della loro dominazione, che fu causa di tante persecuzioni cui il nostro popolo fu oggetto.

“Prendiamo provvedimenti nei suoi riguardi…” dice il Faraone. Questa è la migliore formula per fronteggiare il nemico, quello interno come quello esterno. Per provare a rompere il ciclo con cui la storia ritorna su stessa, è necessario acquisire la coscienza della necessità di assumere per noi stessi una identità ferma e cristallina onde evitare la distorsione che altri la definiscano per noi.

Parashat Bo – Perché è importante la relazione tra le generazioni?

di Rav Eliahu Birnbaum

La Torà nella sua completezza, con tutte le mitzvot, leggi pratiche e teoriche, fu donata al popolo di Israele solo nel momento in cui esso arrivò ai piedi del Monte Sinai, ma quattro mitzvot furono imposte precedentemente. Il primo precetto fu quello del “pru urbù”, siate fertili e moltiplicatevi, comandato da Dio stesso ad Adamo ed Eva, in seguito venne il “brit milà”, il patto stabilito tra Dio e Abramo per tutte le generazioni successive, attraverso la circoncisione, poi il “guid hanashe” (la proibizione di mangiare il nervo del muscolo posteriore degli animali) ed in questa nostra parasha, per ultimo, il popolo di Israele riceve l’ordine di compiere il “korban pesach”, ovvero il sacrificio di un agnello, prima di rompere il laccio della schiavitù ed il legame con l’Egitto.

 

A ciascun membro del popolo di Israele è dato questo precetto che comporta una autentica sfida: l’agnello, animale sacro per gli egiziani, doveva essere preso, custodito per tre giorni in casa di ogni ebreo e sacrificato davanti allo sguardo degli egiziani. Alla fine, il rituale prevedeva anche l’obbligo di consumare tutta la carne dell’agnello e per questo era necessaria la partecipazione di varie famiglie ebraiche ad ogni sacrificio.

A partire dal korban pesach nasce la simbologia della mensa ebraica come elemento di coesione religiosa e culturale. La famiglia ebraica si siede intorno alla tavola e il nutrimento che lo spirito riceve non è minore di quello che riceve il corpo con il cibo che viene ingerito.

La mensa ebraica è il pilastro dell’armonia tra le generazioni, è un momento vibrante che aiuta la trasmissione dei contenuti ebraici, è un’occasione di redenzione dai conflitti tra gli individui.

Quando il Faraone decise di permettere che il popolo di Israele si dirigesse nel deserto ad offrire il korban chiese a Moshe e Ahron: “Chi sono coloro che usciranno?”

“Con i nostri giovani, con i nostri anziani andremo” rispose Moshe, “con i nostri figli e figlie, con tutto il nostro bestiame andremo, dato che è una festa per Dio e per noi.”

Un popolo che realmente desidera acquisire una condizione di libertà deve essere unito; non può essere permesso nessun vuoto nella continuità delle generazioni che lo compongono. La continuità è simbolo dell’unità del popolo; tutto ciò che concerne l’identità collettiva del popolo deve essere preservato e trasmesso di generazione in generazione e pertanto né i giovani, né gli anziani possono essere assenti da una esperienza collettiva trascendentale.

Così come era imprescindibile, in vista della pianificazione del korban nel deserto, poter contare su tutti i membri della nazione, oggi continua ad essere necessario, per la continuità del nostro popolo, che le generazioni che lo compongono mantengano una buona ed armonica connessione.

Qualunque sforzo è giustificato di fronte alla magnifica necessità che questa vicinanza si realizzi e sia più forte grazie all’azione di ognuno di noi.

Parashat Tetsavé – Cos’è un Tempio se non una concessione di Dio alle necessità dell’uomo?

di Rav Eliahu Birnbaum

Non è irrilevante, in un’epoca nella quale non abbiamo il Bet HaMikdash, studiare i particolari della Torà circa la costruzione ed il funzionamento del santuario. Il concetto ebraico riguardante il santuario è inevitabilmente legato alla concezione ebraica del “luogo”: il luogo nel quale si offre ciò che si possiede, uno spazio sacro nel quale ci si consacra per quello che si è. Al di là della distanza storica e, conseguentemente, psicologica che ci separa dal Mishkan e dalle regole relative alle offerte ed ai sacrifici, è necessario studiare il Mishkan, il santuario che i nostri antenati hanno costruito nel deserto, perché quelle pagine della torà contengono una infinità di insegnamenti che conservano intatto il loro valore fino ai nostri giorni.

 

Il Mishkan non era solo il centro della convergenza delle offerte rituali, bensì il fondamento della memoria del popolo. Un centro spirituale il cui scopo e la cui missione erano quelli di mantenere viva nel popolo di Israele la coscienza dei suoi legami e degli obblighi acquisiti ai piedi del monte Sinai. Il Mishkan era un santuario che il popolo portava con sé ovunque si recasse. Non è Dio a richiederlo ma sono gli uomini, perché sono stati loro a costruirlo quale strumento di comunicazione tra ciò che è puramente spirituale e l’esistenza quotidiana, umana, temporale.

Il Mishkan è una concessione di Dio alla natura dell’uomo: Colui che ci ha redenti ha concesso alle nostre debolezze un elemento che ci ricordi i nostri obblighi trascendentali.

Il Mishkan include, a sua volta, quasi tutti gli elementi che ritroviamo nello spazio chiuso di una casa: un tavolo, un arca o armadio, un lavabo, un candelabro…; tutto, al di fuori degli spazi e degli elementi nei quali risposare, è comune sia all’arredo di una casa qualunque che alla “Casa” di Dio. Questa similitudine ci insegna che ogni casa, ogni abitazione, deve e può – nella concezione ebraica –   tendere ad imitare un santuario. Il “baal habait”, il padrone di casa deve fare in modo che la sua casa abbia lo stesso grado di purezza, di spiritualità, di propensione alla giustizia, etc. del Mishkan. All’inverso l’equiparazione fisica tra il santuario e la comune dimora ci insegna che l’uomo può e deve sentirsi nel Mishkan come se fosse a casa propria.

L’assenza di spazi ed elementi in cui riposare, dà l’impressione che la visita di ogni uomo al Mishkan sia sempre qualcosa di nuovo, di vibrante e fresco. Il dinamismo ed il cambiamento sono l’unica costante nel permanente rinnovamento spirituale che ispira la Torà. Una camera, intesa come spazio per dormire, rappresenta ciò che è fisso ed immutabile, mentre il Mishkan deve essere un luogo di permanente rinnovo spirituale per l’uomo ebreo.

Nei nostri tempi sono assenti sia il Mishkan che il Bet HaMikdash, quindi non abbiamo nessun luogo al quale attribuire una tale sacralità, in cui portare a compimento il nostro legame con il Creatore. Proprio per questo abbiamo creato il Bet HaKnesset, il “luogo della riunione”, il piccolo santuario al quale abbiamo assegnato le funzioni che una volta concepivamo ed accettavamo come le più importanti del nostro destino. Il Bet HaKnesset è per noi il luogo delle preghiere, dello studio, della riflessione; è il luogo nel quale, esclusa la possibilità del riposo, l’uomo si deve sentire come nella sua propria casa.

Parashat Vayakhel – I due volti della vita umana

di Rav Eliahu Birnbaum

Questa parashà comincia con un riassunto delle regole relative alla costruzione del Mishkan, il santuario ebraico nel deserto. Sorprende che la prima mitzvà che viene menzionata sia niente meno che quella dell’attenzione allo Shabbat, la proibizione del lavoro nel giorno settimanale di riposo.

 

Il Mishkan aveva lo scopo di essere un centro spirituale, doveva essere lo spazio sacro che accompagnava Israele ovunque il popolo si trovasse. Lo Shabbat, d’altro canto, era il lasso di tempo destinato settimanalmente al sacro.

La Torà pone varie eccezioni alle proibizioni sabbatiche: lo Shabbat può essere profanato in ogni caso per salvare una vita umana e le sue regole sono posticipate per esempio di fronte alla sacralità superiore dello Yom Kippur. Potrebbe essere logico credere che, per accelerare la costruzione del santuario sarebbe stato anche permessa la profanazione dello Shabbat, considerando che Shabbat e Mishkan condividono una identica missione: elevare l’uomo a Dio. La Torà insegna invece ci dice che il Mishkan non deve essere costruito di Shabbat e che una mitzvà non annulla un’altra, che una missione sacra non giustifica mezzi profani. In definitiva, in questa parashà ci viene insegnato che il fine non giustifica i mezzi e che il bene può trasformarsi in male quando i mezzi per raggiungerlo non sono giusti, onesti, coerenti con tutto il corpo morale e normativo ai quali la vita si deve attenere.

Per finanziare il Mishkan, il santuario che accompagnò il popolo di Israele nel suo peregrinare dopo l’uscita dall’Egitto, furono utilizzati due mezzi differenti e complementari di raccolta. Da un lato si chiesero a tutti “offerte”, donazioni secondo la volontà, le possibilità, le motivazioni personali e le condizioni specifiche di ognuno. Da un altro lato fu chiesto per una unica volta un “mezzo shekel” quale contributo obbligatorio per ciascun individuo. Spiegano i nostri saggi che l’ammontare delle donazioni risultava ampiamente sufficiente per portare a termine l’opera di costruzione. Da questo comprendiamo che l’esigenza della mezza moneta, il “mezzo shekel”, non poggiava su una effettiva necessità ma era determinata dall’esigenza che ogni individuo contribuisse nello stessa modo e che, al di là delle donazioni, tutti partecipassero in ugual misura.

La necessità di una siffatta modalità di raccolta trova un’ampia spiegazione nel Talmud in cui, tra l’altro, è scritto che la vita dell’uomo è paragonabile ad una moneta ed ha due facce che possono essere molto differenti ma che sono imprescindibili l’una dall’altra: nessuna delle due può esistere senza l’altra.

Nella vita dell’uomo, i volti o le facce, sono da un lato ciò che è innato, ciò che egli ha ricevuto come eredità dalla sua famiglia, dalla sua educazione, dall’ambiente in cui è nato e cresciuto e dall’altro quanto ha raggiunto, in bene e male, nel prendere decisioni per la sua vita, nel scegliere il suo cammino, nell’esercizio responsabile della sua libertà. La “mezza moneta” è un simbolo di appartenenza, è il contributo ineludibile dovuto per il solo fatto di essere quello che si è; la donazione volontaria, invece, è l’altra volto, l’esercizio della libertà applicata al decidere, in accordo con i propri criteri e le proprie possibilità, così come per gli altri dilemmi che la vita ci impone continuamente di affrontare.

La Torà ci insegna che queste due facce della vita devono essere in armonia sia a livello individuale che collettivo: ne consegue che anche la vita comunitaria ha, come il singolo individuo, due facce il cui equilibrio permette e nutre il suo accrescimento e la sua continuità.

Parashat Sheminì – La fatale eresia degli eccessi

di Rav Eliahu Birnbaum

La nostra parashà ci racconta finalmente l’inaugurazione del Mishkan che avrebbe accompagnato il popolo di Israele fino al momento in cui avrebbe potuto costruire un tempio permanente. Il popolo intero festeggia fino al momento in cui due figli di Aharon, cohanim, muoiono all’interno del Santuario mentre porgono la loro offerta. “E giunsero i figli di Aharon e portarono un fuoco estraneo all’Eterno che non fu loro comandato”. Presentarono una offerta a Dio che non era stata loro richiesta, che non era prescritta dalla Torà e per questa ragione morirono.

L’ebraismo annette un’ importanza speciale alla volontà della persona nel momento in cui compie le mitzvot: senza tale volontà l’uomo non può generare nuovi sistemi di norme e di usanze nel segno della religione. Partendo dalla norme ricevute e cominciando a rinnovarle, l’uomo corre il rischio di assumere una attitudine di estasi e perdere in questo modo il senso stesso della propria religione. Quando l’uomo perde di vista la differenza tra la volontà di Dio e la volontà umana smette di adorare Dio e cade nell’idolatria: idolatria significa proprio concepire strade errate per adorare se stesso.

La vita tradizionale e culturale ha bisogno di attitudini definite, e per questo è molto importante che l’esperienza religiosa abbia un segno sociale e normativo all’interno del quale si possano sviluppare le volontà umane.

La vita tradizionale e religiosa non può solo basarsi unicamente su atti di fede, devozione, volontà, dono ed estasi ma ha anche bisogno di norme e di una morale che aiutino l’uomo a vivere in accordo con la volontà divina, ogni giorno.

I figli di Aharon erano capi del popolo e la loro condizione di leader li rendeva responsabili non solo di se stessi ma anche di coloro che guidavano. Questo fattore deve essere stato determinante per il loro castigo, per non dar spazio a precedenti di devianza volontaria rispetto alla norma, affinché non ci fosse un esempio negativo per le generazioni che sarebbe seguite.

Come si costruisce un’identità collettiva – Parashat Terumà

“Dì ai figli di Israele che prendano un’offerta per tutti g li uomini che diano di cuore” ordina Dio a Moshè. “Offerte di argento, di rame, di lana tinta… e mi costruiranno un santuario…”. Verrebbe spontaneo chiedersi: “Per quale motivo Dio ha bisogno che il popolo parteci e contribuisca alla costruzione del santuario?” Ma come accade di solito quando si ricercano risposte semplici, una tale domanda confonderebbe il tema con la risposta. Non è Dio che ha bisogno di collaborazione né ha bisogno di santuari, ma sono il popolo e i singoli individui che lo compongono, che ne hanno bisogno. che di fatto soffrono per la mancanza di elementi materiali a cui aggrapparsi, di azioni che tendano a rafforzare una coesione e che li identificano come gruppo esistente.

La collaborazione economica di ogni individuo è stata sempre e continua ad essere un mezzo efficace per valutare ed eventualmente consolidare il livello di impegno delle persone con l’identità collettiva alla quale appartengono. Questo impegno che deve essere costantemente riaffermato, “ognuno secondo le sue possibilità”, in modo che si possa stabilire una comunicazione del gruppo con il Creatore, in modo che sia tangibile la possibilità di dialogo tra un intero gruppo umano ed il suo Redentore.

Non è sufficiente il “na’asè venishmà” il “faremo e ascolteremo”, pronunciato ai piedi del monte Sinai, occorre una prova che renda percettibile lo sforzo collettivo attraverso il quale rendere palese l’impegno di ogni membro della congregazione.

Fino a questa parashà, il popolo di Israele si è comportato come un soggetto ricevente: è stato liberato dal giogo egiziano, è stato portato nel deserto attraverso i miracoli e, in modo non meno miracoloso, ha ricevuto il suo sostentamento. Ora è giunto il momento in cui chi ha ricevuto, deve rispondere alla generosità divina divenendo un “trasmettitore”; il soggetto passivo dei miracoli di Dio deve diventare l’attore della propria storia e realizzare per il suo Dio uno standard che sintetizzi una particolarità rispetto alle divinità dei popoli vicini.

La costruzione del Santuario non è ristretta a un settore benestante del popolo di Israele, ma per la stessa essenza, del suo significato e rispettando le possibilità di ognuno, è una missione che anche una semplice omissione individuale potrebbe invalidare. Nessuno può restare fuori da questa missione. Si tratta di uno sforzo comune e congiuntivo per tutti i beneficiari della grazia di Dio ed il cui valore quantitativo è soggetto alle possibilità collettive ed individuali.

Ancora oggi questo schema resta immutato. Il contributo individuale, senza eccezione alcuna, resta una condizione necessaria per l’ esistenza di tutta l’identità collettiva. La collaborazione economica per un progetto congiunto rappresentata oggi dalla solidarietà per gli indigenti di ogni comunità così come per la necessità dello Stato di Israele, non smette di essere un’azione collettiva per il benessere di tutta la comunità.

Rav Eliahu Birnbaum