L’agenda della redenzione – Parashat Vaera

Gli anni della schiavitù e della sofferenza sembrano essere giunti alla fine, Moshe lo  apprende allorché, a partire da questo parashà, Dio si rivolge al popolo di Israele per spiegargli come sarà liberato dall’Egitto e sarà fisicamente e spiritualmente redento da tutte le sue sofferenze.

Questa è la parashà nella quale Dio presenta a Moshe il “programma della redenzione” con tutti i suoi dettagli: quali passi saranno necessari, con quale ritmo, come si determineranno la varie tappe del processo, alla fine del quale il popolo di Israele si ritroverà realmente libero da tutte le limitazioni che lo affliggono.

Dio espone quindi una “agenda” che rivela un aspetto importante della sua intenzione: la liberazione del popolo e dei singoli componenti deve avvenire attraverso un processo che tenga conto della natura umana; gli elementi magici o miracolosi non sono che accessori. La redenzione come stato finale, deve includere una memoria del processo, una memoria analizzabile, dalla quale la presente e le future generazioni del popolo ebraico potranno trarre insegnamento e prendere esempio.

Moshe si rivolge al popolo di Israele, ansioso di comunicargli le buone notizie, e si confronta con la frustrazione di non essere ascoltato e di non essere compreso. La grande notizia della salvezza passa inosservata, il discorso grandioso naufraga di fronte alla fragilità e all’indifferenza degli schiavi ebrei. “E non ascoltarono a Moshe per impazienza ed il duro lavoro”, spiega la Torà.

“Per impazienza…”. Un popolo schiavo non avrebbe dovuto essere ansioso di cogliere un qualunque indizio della possibilità di redenzione? In realtà il popolo non si trova nella condizione di poter prestare attenzione alle parole che gli rivolge Moshe. Forse, proprio  perché impaziente, lo stesso Moshe avrebbe dovuto saper adeguare il suo discorso, elaborandolo appositamente per coloro che lo avrebbero ascoltato.

Moshe non abbellisce con parole il messaggio che porta al suo popolo, lo trasferisce nel suo stato più puro e crudo, esattamente come lo ha ricevuto.  Ma il popolo stava sottomesso ad un “duro lavoro”. Quante volte nella storia siamo stati poco attenti a causa del “duro lavoro”? poco attenti a Moshe, ai dirigenti della Comunità, alla Torà, a Dio, alle situazioni reali vissute dal nostro popolo; situazioni la cui comprensione avrebbe probabilmente evitato esiti fatali.

In questa occasione, come in tante altre, la disattenzione frutto del “duro lavoro”, ostacolò il cammino verso la liberazione. Il lavoro duro non è negativo in se stesso, però bisognerebbe riuscire ad evitare che esso ci condizioni talmente da impedirci di pensare, di riconoscere la nostra situazione, di orientare e sviluppare i nostri ideali, di fare, infine, un uso responsabile di quella libertà che solo noi stessi abbiamo il potere di difendere e conservare.