“Non ingannerai il tuo prossimo” questo è il comandamento di questa parashà che immediatamente aggiunge, attestando la provenienza della noma: “Io sono Dio.”
Nella Torà il concetto dell’inganno ha un significato molto ampio: per la morale ebraica l’”inganno”, in tutte le sue forme, che sia volontario o meno, che sia legalmente giustificabile o anche solo una deformazione della realtà, significa defraudare un’altra persona. Per la Torà ingannare il prossimo significa approfittare dell’ignoranza di qualcuno su un determinato tema, per esercitare una illecita influenza materiale, spirituale o morale.
Il Talmud cita a titolo di esempio una persona che, a un certo punto della sua vita, si avvia su una cattiva strada, ma dopo se ne pente e torna su quella buona: è considerato “inganno nei confronti del prossimo” anche il solo ricordare ad altri il suo comportamento precedente. Nei confronti di un convertito è proibito menzionare qualcosa che si riferisca in modo offensivo alla sua precedente condizione di gentile. Allo stesso modo è proibito attribuire le disgrazie di colui che siede in lutto al suo comportamento personale, facendo aumentare l’intensità delle sue sofferenze.
I saggi hanno costruito, intorno alla Torà, una “siepe” di protezione che amplia le restrizioni proprie della legge per allontanare la possibilità di qualunque trasgressione. In questa parashà veniamo avvertiti di avere una speciale attenzione nel momento in cui diamo un consiglio ad una persona: anche senza cattiva intenzione un consiglio offerto in modo irresponsabile o che tradisca la fiducia riposta, se risulta ingannevole o conduce inavvertitamente su una strada errata, è considerato una forma di inganno e frode.
Esiste una unica eccezione, tutta umana, nella quale l’esegesi rabbinica assolve determinate forme di inganno. “L’uomo non può essere come una pietra che resta immobile di fronte all’attacco di altre persone” spiega il Talmud, giustificando il fatto che una persona frodata possa comportarsi con colui che l’ha frodato in modo analogo a ciò che ha subìto. Ciò nonostante la vendetta, in quanto azione istintiva nella quale i sentimenti prevalgono sulla ragione, è esplicitamente proibita dalla Torà, ed il Talmud ne conferma con forza la condanna.
Tuttavia non è questo il caso di colui che, volendo riscattarsi dal danno subito, risponde a colui che lo ha danneggiato, con una azione simile, di uguale livello: l’ unica eccezione contemplata è il delitto di sangue. I nostri saggi, pur non raccomandando “ la compensazione vendicativa per le azioni”, tendono a comprenderla e giustificarla.
La Torà stabilisce che, quando un ebreo si incontra in stato di necessità e ricorre ad un altro in condizioni di maggior agiatezza, quest’ultimo non deve approfittarne: deve offrirgli il suo appoggio per carità e non per interesse.
Infine è da rilevare che per la Torà non è una minore trasgressione l’inganno verso un gentile rispetto all’inganno verso colui che appartiene al popolo di Israele; entrambi i casi sono per l’Ebraismo condannabili in maniera identica.