Il pericolo della Santità – Parashat VeZot Ha Berachà

In questa parashà, l’ultima della Torà, Moshé infine si ritira e lascia il posto alla nuova leadership esercitata da coloro che dovranno succedergli.

“E questa è la benedizione che Moshé, uomo di Dio impartì ai figli di Israele prima della sua morte…” così ci racconta la Torà. Moshé, il profeta, sa che la sua vita non gli appartiene e che, anche nel momento della sua morte, deve occuparsi del suo popolo che fino a quell’istante stesso ha guidato.

Moshé, cosciente del fatto che neanche in quell’istante godrà della propria intimità, e che la sua vita sarà di esempio per le generazioni che verranno, dedica i suoi ultimi aliti di vita ad impartire benedizioni e consigli che attenuino la sensazione di abbandono che proverà il popolo di Israele subito dopo la sua diapartita.

“E salì Moshé sul Monte Nevo, sulla cima della “Pisgà”. Salì per non scendere, e morì nella terra di Moav e fu sepolto nella valle, in terra di Moav e nessuno conosce la sua sepoltura sino ad oggi. Moshè, uomo di Dio vive la morte come un uomo.

La morte di Moshé comportava diversi rischi. Moshé poteva essere idolatrato dal suo popolo che si sarebbe sentito temporaneamente “nudo”, orbato della sua presenza. Moshé “Ish HaElokim”,  uomo di Dio, aveva tutte le caratteristiche per essere considerato “figlio di Dio”, divinità egli stesso, con il pericolo che il popolo sviasse in maniera perversa ed idolatra, diametralmente opposta rispetto a tutti gli insegnamenti ricevuti.

A titolo di ulteriore prevenzione, il luogo della sepoltura doveva rimanere segreto. La possibilità di visitare una tomba offre uno spazio ed una immagine concreta ed identificabile adatti ad esercitare una idolatria liberatoria. Permettere che il popolo delegasse la propria responsabilità mistificando la sepoltura di Moshé non era nei disegni del Creatore.

Ai “miracoli ed i prodigi ed i miracoli che con mano potente compì Moshe di fronte agli occhi di tutto Israele”, fa riferimento questa parashà nel suo culmine che è anche quello di tutta la Torà. Rashi, uno dei massimi esegeti della nostra storia, esemplifica queste meraviglie e prodigi raccontando l’episodio nel quale Moshe ruppe le prime tavole della Legge. Da quell’episodio apprendiamo che persino le tavole della Legge, il simbolo più sacro e concreto che il popolo ebraico abbia ricevuto dalle mani di Moshe, devono essere sacralizzate ma non adorate in quanto tali. In determinate circostanze, se davvero necessario per coloro a cui il simbolo è destinato, persino le tavole della Legge possono essere spezzate.

Nel corso di tutta la sua vita ed in particolar modo nel momento supremo, quando si avvicina la morte, Moshè insegna che nessun elemento materiale è sacro di per sé e che di conseguenza nessun simbolo e nessun luogo debbono essere considerati come oggetti di devozione.  E’ l’uomo colui che si deve santificare, partendo dai suoi pensieri, dalle sue azioni e dall’impegno con il quale segna il cammino della sua vita, come esempio per le generazioni che verranno.

Con il consenso del cielo la terra ascolterà – Parashat Haazinu

E’ giunto il momento nel quale Moshé deve separarsi dal suo popolo e sceglie di farlo con una poesia. Il suo canto è intenso e denso di metafore, passibile di una infinità di letture in accordo con ogni epoca e luogo.

“Ascoltate cieli e parlerò ed ascolterà la terra i detti della mia bocca.” Moshé era abituato al linguaggio dei “cieli”, a ricevere, interpretare e tradurre per gli uomini il messaggio di Dio. Allo stesso tempo, domina il linguaggio della terra, degli uomini  e con la sua parola li guida. Questa volta, nel suo addio, si dirige contemporaneamente ad entrambi i livelli, la sua poesia invoca l’attenzione dei cieli e della terra, della materia e dello spirito. Nel suo canto finale, Moshé lascia trasparire il processo che trasforma un concetto in una idea che a sua volta si traduce in una realtà. Chiede che i cieli lo ascoltino, sapendo che, in tal modo, anche la terra udrà.

La prima lettura di questa dualità del linguaggio ci porta a sottolineare una qualità imprescindibile della leadership: il leader deve dominare il cammino attraverso il quale il linguaggio diventa unico, deve praticare l’arte di armonizzare gli estremi, facendo in modo che regni la coerenza tra i concetti e la condotta di coloro che guida e di se stesso. Contemporaneamente deve conoscere i meccanismi che consentono al suo discorso di diventare efficace: se si rivolge unicamente agli uomini senza contare nell’appoggio di Dio,  a poco servirà quello che dice. Al contrario invoca l’Eterno, gli chiede di essere ascoltato e sapendo che se la sua supplica è accettata anche la terra, ovvero gli uomini, lo ascolteranno.

Il questo momento della sua vita, la figura di Moshé assume una peculiare tragicità e un sentimento di frustrazione pervade le profezie contenute nel suo addio. Per quaranta anni ha insegnato la Torà al popolo di Israele ed ha guidato l’attuazione delle sue norme e valori. Ora constata che i risultati sono deludenti: “Ed ordinò Moshe ai Leviti: Prendete questo libro della Legge e ponetelo nell’Arca del Patto dell’Eterno Vostro Dio perché stia lì come testimone per te, perché conosco la tua indole ribelle e la tua dura cervice.” E continua: “Se siete stati ribelli con l’Eterno quando io ero vivo in mezzo a voi, a maggior ragione lo sarete dopo la mia morte. Perché so che dopo la mia morte vi corromperete e devierete dal cammino che è stato fissato…”

La mancanza di certezza circa la continuità della sua opera, impedisce a  Moshé di provare soddisfazione per ciò che comunque sa di aver compiuto.  Sa che il suo popolo si allontanerà dalla Torà e fa una richiesta radicale: il Sefer, il libro della Legge sia conservato come testimone, come memoria, come fondamento su cui si appoggeranno le generazioni che verranno. Come leader esperto, Moshé cerca di conciliare esigenze minimali con elevate aspirazioni.  E’ desiderabile – o meglio doveroso – che il popolo segua la tradizione e le norme apprese, che faccia propria l’analisi e l’applicazione della Torà in ogni realtà. Però è imprescindibile che almeno conservi le basi necessarie per recuperare il giusto sentiero quando devierà da esso.

Il dilemma che, in tal modo, Moshé risolve, riguarda ogni forma di potere e non deve essere sottovalutato. L’arte della leadership esige che si riconosca quando è opportuna la severità e quando la tolleranza. Succede spesso che la severità anche se correttamente gestita ci allontana dagli obiettivi che cerchiamo. In altre occasioni la tolleranza inopportuna diviene negligenza e produce danni difficilmente rimediabili.

E così i nostri saggi stabilirono che la Legge Orale, l’analisi e la tradizione che accompagnano la Torà, dovessero essere scritti e documentati nel Talmud, diversamente da quanto inizialmente previsto: una decisione assunta affinché il popolo di Israele, a causa di eventi contingenti, dimenticasse si allontanasse da questi fondamentali principi.

Cosa occorre per un governo ideale? – Parashat Shoftim

Seguendo le tematiche di tutto il libro di Devarim, che riguardano lo sviluppo di una società ideale in terra di Israele, questa parashà si chiede di cosa abbia bisogno un gruppo di persone per acquisire il carattere di “società”. E’ forse sufficiente parlare la stessa lingua, abitare in spazi contigui ed avere referenti comuni? La Torà risponde enumerando i capisaldi che sosterranno una società armonica, colonne su cui ci si appoggerà per crescere e per dirimere i propri conflitti, per applicare la giustizia e per condividere e realizzare sogni ed ideali comuni.

“Giudici e poliziotti porrai per te in tutte le città che l’Eterno tuo Dio assegnerà alle tue tribù”.

In primo luogo, una società richiede una Legge, un potere Giudiziario, Giudici che distinguano tra il compimento e la trasgressione, che siano capaci di interpretare la Legge, di applicarla in ogni contesto e di creare una giurisprudenza partendo da essa. Nel corso della storia ebraica ci sono stati tribunali magnifici ed in talune occasioni, come nell’epoca in cui viviamo, il ruolo dei giudici è stato svolto da filosofi, studiosi e rabbini. La sostanza prevale sulla forma:  può esercitare la giustizia solo colui che, più degli altri, dedica la sua vita alla sapienza ed alla santità.

In secondo luogo la polizia (shotrim), il braccio esecutore della Legge, è incaricato di applicare la sentenza del giudice, di passare dalla teoria alla pratica, gestendo l’imprescindibile obbligatorietà. Insieme ai Giudici ed al di sopra della polizia troviamo la figura del Re, il Melech, persona o istituzione incaricata di dirigere ed amministrare l’applicazione effettiva della Legge.

La figura del Re ha come compito il fare sì che, oltre ad avere la Legge, la comunità ne faccia uso. Anche qui, come sempre, primeggia nella Torà il criterio della realtà: un uomo non sarà considerato buono in nome delle sue buone intenzioni ma solo per le buone azioni che compie.

La terza colonna di una società è il Cohen, il sacerdote. Egli rappresenta la tradizione, le radici e la storia della comunità. Nessun individuo, in particolar modo nessuna comunità, può vivere in armonia, se separata dal proprio passato; l’identità ha le proprie radici nella profondità della memoria ed è il Cohen che deve centralizzare la vita spirituale e religiosa del popolo e garantire la sua continuità.

Per l’esistenza stessa della società, la proiezione comune verso il futuro non è meno imprescindibile dei riferimenti collettivi verso il passato. Per questo il profeta o “Navi” è la figura incaricata di fungere da “antenna individuale” per i sogni ed i desideri di tutta la comunità. Il “Navi”, quarta ed ultima colonna della società ideale che prospetta la Torà, è colui che anima di speranza i sogni del popolo di Israele, indicandogli il cammino, accendendo, quando necessario, la scintilla che trasforma la passione in volontà.

I quattro pilastri nominati dalla Torà sono necessari per l’esistenza di una società armoniosa, per la comunità, per la famiglia e per ogni individuo che vuole procedere con dignità nel cammino con Dio. Né una persona, né una società possono vivere in armonia se mancano norme etiche e morali e termini di riferimento da cui partire per sviluppare la propria vita; tali termini di riferimento saranno però inutili se non saranno ricondotti al contesto reale ed attualizzati.

Infine, soggetti al tempo in cui trascorrono le nostre vite, è importante che ogni uomo ed ogni comunità, si creino una propria identità e vivano in armonia, anche se dovessero affievolirsi la relazione costante con le proprie radici, le aspettativa per il futuro e le energie vitali che fermentano nella speranza.

Povertà carità e rivoluzione sociale – Parashat Ree

Lungo tutto il libro di Devarim ci viene insegnato come creare una società modello nella Terra di Israele. In questa parashà si parla della povertà in quanto realtà da conoscere e da affrontare. “Non mancheranno mai poveri sulla terra”: la Torà afferma ideali e codici di valore ed allo stesso tempo non perde di vista la realtà: considerando che la povertà ben difficilmente sparirà in maniera totale nella nostra realtà sociale, ci viene insegnato come convivere con essa ed aiutare coloro che hanno bisogno di noi.

“Se dovesse esserci un bisognoso tra i tuoi fratelli all’interno della tua città, nella terra che Dio l’Eterno ti ha donata, non indurirai il tuo cuore con lui né chiuderai la tua mano, ma gli presterai qualsiasi cosa necessiti.” L’insegnamento è chiaro: si deve positivamente aprire la mano e viene imposto di non chiudere il cuore. Azione ed emozione si integrano completamente per far fronte alle necessità dell’altro: il cuore commosso che stimola la mano perché questa agisca rimediando per quanto sia possibile alla situazione.  Attraverso questa integrazione l’uomo riesce a superare la propria natura egoista e quindi riesce ad essere migliore.

D’altra parte il concetto ebraico di aiuto per il bisognoso non è paragonabile alla “carità” ma alla “giustizia”, concetto attivo chiamato “tzedakà”. E’ un concetto che parte dal riconoscimento della uguale potenzialità tra gli uomini. E’ pertanto un obbligo che equivale al pagamento delle imposte, che non sentiamo certo come una “carità”.

La “carità” è in realtà un sostituto della “solidarietà”: la carità rischia di emarginare ancora di più una persona. La solidarietà, che nasce dal cuore, si fonda nella identificazione con ogni uomo e si manifesta nell’atto concreto dell’aiuto. Secondo il Rambam (Maimonide) il grado più alto della solidarietà consiste nell’aiutare un bisognoso ad integrarsi nuovamente nella vita economica e sociale, facendo in modo che ottenga un lavoro ed un sostentamento e gli si consenta di dare dignità alla sua vita nella società.

In questo precetto si manifestano chiaramente due qualità che la Torà assegna ad ognuno dei precetti che la compongono. Innanzitutto la Torà si rivolge al singolo, ad ogni individuo del popolo di Israele. Spesso le persone placano la voce della coscienza attribuendo alla comunità l’obbligo di soccorrere i bisognosi, evadendo così la loro quota personale di responsabilità. Invece la Torà ci insegna che ogni individuo è personalmente responsabile del destino del suo prossimo. In secondo luogo i precetti che si riferiscono alle relazioni umane – e questo in particolare – sono di carattere attivo. Non bisogna aspettare che i bisognosi giungano a noi – magari con la speranza che altri siano davanti a noi ad intercettare la richiesta di aiuto – ma bisogna prendere l’iniziativa, aprendo ognuno la sua mano ed il suo cuore, con la chiara coscienza che la “comunità” non è una entità astratta, bensì il risultato trascendente di una somma a cui nessuna componente può mancare. In caso contrario si è causa dell’incompiutezza del concetto stesso di comunità.

La Torà introduce una “rivoluzione sociale”, con principi religiosi ispirati ad un criterio realista ed umanitario. Non è realista aspettarsi la scomparsa della povertà. La rivoluzione, che non può che essere individuale, consiste nell’impegno di ciascuno nei confronti dei suoi simili; ed è così che si deve formare la società. Questi sono ora, in termini occidentali, le colonne del “contratto sociale”: una ricerca armonica del bene individuale e del bene comune.

La rivoluzione sociale si costruisce a partire della somma della coscienza e rivoluzioni individuali che devono nascere dalla sensibilità umana, presente in tutte le forme e in tutti i livelli della cultura e dell’educazione.

Cosa è la solidarietà ebraica? – Parashat Mattot Massé

A questo punto del racconto biblico ci ritroviamo con una crisi che riguarda non già il passato bensì il presente ed il futuro del popolo di Israele.

La Transgiordania è già stata conquistata. Il popolo di Israele si appresta ad attraversare il fiume Giordano per entrare nella terra promessa e conquistarla. In questo preciso momento due tra le tribù chiedono a Moshé di non passare il Giordano: preferiscono stabilirsi nel luogo in cui si trovano e chiedono che venga già loro assegnata una porzione nella terra di Israele.

“Se abbiamo grazia ai tuoi occhi, ti chiediamo che sia data questa terra ai tuoi servi in eredità e non ci sia fatto passare il Giordano.” Con grande delicatezza e amabilità presentano la loro richiesta, che tuttavia  implica la loro separazione del resto del popolo. Alieni dalla santità della terra di Israele, sembrano concepire la terra unicamente come un fattore economico: “Questa terra è giusta per gli armenti ed i tuoi servi hanno armenti.” Questo è il loro argomento.

Attratti da un utilitarismo materiale, i capi di queste tribù non avvertono la necessità di condivisione e di connessione con la realtà di tutto il popolo di Israele. Così, spiegano a Moshé, “costruiremo stalle per i nostri armenti e città per i nostri piccoli”, menzionando il lato economico – gli armenti – prima di quello familiare e morale – i piccoli.

Rispetto a questo passaggio, Rashi fa notare che Moshé inverte l’ordine degli elementi nella sua risposta: “Costruirete città per i vostri figli e stalle per il vostro gregge” e li risveglia con un discorso circa la necessità di mantenere l’ordine autentico tra ciò che è fondamentale e ciò che è secondario.

Riferendosi all’unità del suo popolo, Moshé aggiunge poi ulteriori argomenti contro le iniziative di Gad e Reuven:  “Per caso vorreste rimanere qui mentre i vostri fratelli andranno in guerra? Perché volete scoraggiare i figli di Israele inducendoli a non passare nella terra che l’Eterno gli dona?” In realtà Moshé non è preoccupato per la possibilità della conquista; sa che Dio ha promesso al suo popolo la terra e che questa sarà comunque conquistata, con più o meno soldati.

Moshé pone una domanda retorica di ordine morale in quanto egli non ha dubbi su quali debbano essere gli elementi che definiscono questo popolo come tale; egli teme in particolar modo che al posto della solidarietà collettiva che dovrebbe indurre queste due tribù alla lotta comune con le altre, ci sia una diserzione che potrebbe demoralizzare e sfiancare l’intero popolo che si accinge a intraprendere la conquista.

Di fronte al rischio imminente che percepisce, Moshé decide questa azione autonomamente, senza consultarsi con Dio. È disposto a dividere la terra, ma non a consentire la divisione del popolo. Gad e Reuven, in seguito, lasceranno le loro famiglie in Transgiordania, attraverseranno per primi il Giordano e lotteranno fianco a fianco dei loro fratelli. Solo dopo la conquista e la divisione della terra si ricongiungeranno alle loro famiglie ed alla terra che hanno scelto.

Questa parashà ci racconta, in definitiva, della responsabilità collettiva del popolo di Israele che grava su ogni suo membro. Un popolo dotato di una propria identità che si regge su basi solide è un organismo sano: se una parte di esso si trova in pericolo, l’integrità di tutto il corpo è compromessa e l’organismo intero si deve difendere.

Per governare bisogna comprendere e guidare ognuno dei governati – Parashat Pinchas

La successione a Moshé nella leadership di Israele è il tema centrale di questa parashà. Moshé sa che sta per morire e chiede a Dio la scelta di un successore che guidi il popolo quando egli non ci sarà più. “E rispose Moshé all’Eterno: Designa o Eterno, Dio degli spiriti di ogni carne, un uomo che diriga la congregazione, un uomo che possa portarla, accompagnarla e condurla, perché il popolo di Israele non resti come un gregge senza pastore.”

Moshé non si preoccupa per se stesso ma per il popolo, gli dà angoscia la possibilità che esso si ritrovi senza un leader che lo possa guidare. Moshé conosce il popolo, lo ha guidato per quaranta anni. Adesso prega Dio di scegliere, in vita, colui che gli succederà in questa missione tanto difficile. Moshé vuole partecipare alla scelta del nuovo leader, vuole assicurarsi che si tratti di qualcuno che sia adatto alle necessità del popolo, vorrebbe poterlo istruire e prepararlo, affinché l’immane sforzo compiuto in tutti questi anni non sia stato vano e non se ne perdano i risultati a causa di qualcuno non idoneo a proseguire il cammino intrapreso.

Moshé specifica le qualità che dovrà possedere il successore. Prima di tutto dovrà essere un “uomo che sia al di sopra della comunità”, ma che partecipi e comprenda ciò che accade al popolo. Deve trattarsi di un uomo sensibile alle necessità e che comprenda il modo di esprimersi della gente. Deve essere sincero ed avere una profonda volontà di aiutare il prossimo in ogni momento. “Un uomo che possa orientare e dirigere il popolo secondo le sue necessità”. Colui che succederà a Moshé nella leadership di Israele doveva avere una linea ed obiettivi chiari, però doveva anche tenere in conto e saper canalizzare le necessità e le inquietudini di coloro che si accingeva a guidare.

Rashi rileva come la persona che cerca Moshé debba essere capace di dimostrare sensibilità verso ogni individuo. “Dio, tu conosci il carattere di ogni persona e sai che uno non è uguale al suo prossimo. Designa un pastore che sappia concepire ed intendere ognuno di essi in maniera individuale.”  In questo modo Moshé esprime il proprio desiderio, attingendo alla propria esperienza l’insegnamento che per poter dirigere saggiamente una collettività, occorre saper raggiungere individualmente ciascun soggetto: solo in questo modo ci si può davvero rivolgere ad una comunità.

Moshé reclama per la comunità anche “un uomo che possa portarla, accompagnarla e condurla”, qualcuno che accompagni il suo popolo, che “esca ed entri insieme ad esso”. Non vuole un leader come quelli degli altri popoli, che inviano i loro eserciti alla guerra mentre restano comodamente nei loro palazzi. Nel popolo di Israele, il re o colui che lo guida, esce in guerra alla testa del suo esercito. Oggi uscendo nel campo di battaglia, l’ufficiale dell’esercito israeliano dice “Acharai”, “dopo di me” ed esce alla testa dei suoi soldati.

Ma non si tratta solo di accompagnare il popolo, ma anche di condurlo. Condurre un popolo alla guerra è relativamente facile. Dove la maggior parte delle persone fallisce è nel riportare il popolo alla normalità, tanto fisica quanto piscologica e spirituale.

L’uomo che Moshé cerca come proprio successore è il prototipo del leader autentico, partecipe realmente del destino di coloro che gli hanno messo nelle mani i propri destini. Sempre cosciente degli obiettivi che vuole perseguire e capace di assumersi la responsabilità delle conseguenze di ogni impresa in cui coinvolge la propria comunità.

 

L’arte ed il potere della parola – Parashat Chukkat

In questa parashà il popolo di Israele continua a vivere nel deserto sperimentando diverse crisi che dimostrano che se non si supera mentalmente la condizione di schiavo non si può divenire liberi.

Ad un certo punto viene a mancare l’acqua e le persone e gli armenti soffrono la sete. In questo specifico momento appare, come per altre volte, il fantasma del passato: “E perché ci hai fatto uscire dall’Egitto, per portarci in questo luogo che non è un luogo ricco di fichi, vite e melograno e dove non c’è acqua da bere.” Alla presenza di una difficoltà il popolo dimentica nuovamente che in Egitto il cibo non era assicurato, dimentica che il prezzo per esso era la schiavitù.

Moshé ricorre un’altra volta a Dio. Dio gli dice di usare la parola come strumento per far scaturire l’acqua da una roccia. Moshé non si attiene alle indicazioni ricevute. Non ci è chiaro perché lo faccia, però, invece di parlare alla roccia la colpisce per ben due volte. Dio giudica l’azione di Moshé come una profanazione: “non ebbero fede in me per santificarmi di fronte gli occhi dei figli di Israele…” e condanna Moshé ad un castigo terribile. Moshé, colui che fece uscire il  popolo dalla schiavitù, che sognò e fece sognare la terra di Israele, non potrà entrarvi, dovrà morire senza vederla per non aver permesso che il flusso improvviso dell’acqua fosse un atto di santificazione di Dio ed un atto di fede.

Questo episodio è uno tra quelli che hanno suscitato maggior inquietudine nei commentatori della Torà. In cosa consiste l’immensa gravità del peccato per il quale Moshé ha ricevuto tanto castigo?

L’uomo fu creato con la facoltà di poter comunicare attraverso la parola. Non ha solo la possibilità di pensare, ma può anche comunicare quello che pensa agli altri. L’uso della parola è una facoltà che permette la comunicazione del pensiero e la sua attuazione.

La società, anche quella governata da Moshé, ha bisogno di giudici e di polizia, di leggi e di norme di condotta. Ma il governo, la leadership – che precede ed è condizione per le altre funzioni – deve essere fondata sulla parola, sulla possibilità di comunicazione. Moshé, colpendo la rocca invece di parlarle, non dà attuazione a quel concetto di governo, fondato sulla parola, che Dio intendeva assegnare al popolo di Israele.

Commentando questo avvenimento, il rabbino Soloveitchik afferma che esistono due tipi di leadership: quella della spada, che governa attraverso la forza, attraverso la paura delle masse che temono il loro leader e quella della parola che governa attraverso l’insegnamento, la riflessione e la sapienza. Questo è il cammino dell’educazione.

Moshé era solo alla guida del popolo, doveva governare attraverso la parola. In questo caso diede l’immagine di aver perso il controllo, di essere tentato a governare  con l’uso della spada. Inoltre, colpendo due volte, reitera il suo errore. La mancanza più grave di colui che prova a governare con la parola è perdere la fede nelle proprie parole. Quando si perde fiducia nella parola, quando si fa appello alla spada, si perde la possibilità di educare, si perde la facoltà di trasmettere il messaggio, si perde la ricchezza insita nell’atto stesso della comunicazione.

Probabilmente gran parte dei problemi che esistono oggi nell’ebraismo e nel popolo ebraico – o forse nell’umanità intera? – derivano dall’allontanamento dalla parola, dalla perdita dell’arte della comunicazione e dalla necessità insoddisfatta di dialogare ed educare.

Quando i bassi istinti governano la ragione – Parashat Korach

La crisi che si scatena in questa parashà è, nei fatti, una crisi di autorità. Nella parashà precedente la disperazione e la mancanza di fede hanno fatto sì che la generazione del deserto non sarebbe entrata nella terra di Israele e avrebbe vagato per quaranta anni nel deserto.

La leadership su tutto il popolo era gestita personalmente da Moshe fin da prima dell’uscita dall’Egitto. Il popolo non aveva preso nessuna decisione per conto proprio: era stato forzato alla liberazione, gli era stato imposto un ruolo ed un modo di vita e, a prescindere della sua volontà, si era determinato per lui un destino.

Probabilmente, se fosse stato consultato preventivamente, il popolo di Israele non avrebbe organizzato l’uscita dall’Egitto, né avrebbe scelto Moshé come proprio leader. Ma ancora di più: non avrebbe agito e non avrebbe scelto.

Moshé non era come loro: non era stato schiavo, era stato cresciuto come un principe nel palazzo del Faraone. La sua educazione era corretta e rispettosa, ma autoritaria. Moshé era sempre stata una persona solitaria. A differenza di altri leaders posteriori come Yeoshua o il Re David, che furono amati dal loro popolo, Moshé era timido, rispettato e generalmente obbedito, però in solitudine e lontananza, senza l’amore del suo popolo. Era stato scelto da Dio per portare a termine il suo ruolo di leader e profeta, non solo contro la volontà del suo popolo ma anche contro la sua stessa volontà.

In questa parashà l’autorità di Moshé è messa in discussione da un altro membro della sua stessa tribù: Korach ben Itzhar, un levita che si ribella ed afferma che tutta la congregazione, tutto il popolo di Israele è formato da santi e che in essi abita Dio e che domanda: “perché vi siete posti come capi sulla congregazione di Dio?”, mettendo così in discussione l’autorità di Moshe e di Aaron. Korach sta mettendo in discussione lo stesso concetto di leadership, leadership alla quale, a sua volta, pretende di accedere. Disprezzando l’immagine di Moshe di fronte al popolo, cerca di screditare i valori della Torà.

D’altra parte, già quando dice che tutto il popolo è formato da santi, Korach comincia a distorcere il concetto stesso di santità. Questa uniformità è impossibile: il popolo di Israele era ovviamente formato da

persone con diversi livelli spirituali, intellettuali e morali. Le argomentazioni di Korach mostravano in maniera oscena una radice di invidia ed ambizione di portata fuori dal comune.

La Torà sostiene la discussione ed il confronto, quando questo si realizza con franchezza ed autenticità. Ci sono casi celebri nel Talmud, come quello di Hillel e Shammai, che dimostrano come una discussione possa durare per molti anni, per molte generazioni, purché sia basata sempre sul rispetto dell’opinione altrui e sia sostenuta con sincere argomentazioni. Nel caso di Korach possiamo notare esattamente il contrario: le argomentazioni capricciose sono poste al servizio della volontà a priori di avere ragione.

Una discussione diventa conflitto quando una delle parti presume di aver potere ed autorità sull’opinione del suo prossimo, quando non è disposta ad ascoltare e dialogare, quando l’ideologia si trincera nelle proprie posizioni e diventa impermeabile allo scambio ed alla ragione.  Una sincera discussione permette, al contrario, di realizzare un processo di tesi, antitesi e sintesi, che è quanto di meglio si possa auspicare. Quando una o entrambe le parti si ostinano sulle proprie tesi per ragioni di prestigio egoistico, ogni possibilità di sintesi è preclusa e la discussione risulta impoverita e destinata al fallimento.

Nell’ebraismo la discussione è sempre stimolata, è prescritta l’attenzione nei confronti del prossimo ed è condannata la reazione violenta. L’ebraismo ripudia tutte le forme di violenza e stabilisce che questa viene sempre dall’uomo e non dalle situazioni che gli sono imposte.

Dio dice al popolo di Israele: “Figli carissimi, solo una cosa chiedo a voi: che vi vogliate bene gli uni con gli altri e che ognuno rispetti il suo prossimo.” Questo concetto non è contro una discussione sana, ma richiede il rispetto reciproco tra coloro che vi prendono parte.

La necessità di riconoscersi in noi stessi – Parashat Bamidbar

Con questa parashà inizia la lettura del libro di Bamidbar (nel deserto) il quarto libro della Torà. Ad una prima lettura questo libro può dare un’impressione di grande semplicità, sembra noioso, a immagine del deserto che è al centro del suo racconto. I riferimenti immediati che ci vengono alla mente pensando al deserto si relazionano con la tranquillità, la solitudine, la lentezza e la vita senza alcuna sorpresa.

Paradossalmente è in questo deserto che nascono l’ordine interno e la tradizione del popolo di Israele. Allo stesso modo in cui un corpo malato o senza difese viene isolato per farlo guarire, il popolo di Israele viene separato dalla cultura mesopotamica, egizia e cananea e viene allontanato dalla società, dalle filosofie estranee, dalla influenze che avrebbero potuto condizionarlo. Il deserto funziona come un “laboratorio” nel quale il popolo di Israele si sviluppa in quanto tale.

Il deserto è il luogo dove il popolo impara a rispettare ed a mantenere una struttura, una organizzazione. Ogni tribù prende il proprio posto, la propria bandiera ed il proprio stemma, ognuna di esse conosce e rispetta la funzione e la responsabilità che le è stata attribuita. Senza dubbio, riferendosi ad un periodo di sviluppo, di sistematizzazione di una tradizione e di una identità nazionale, il libro Bamidbar è, per eccellenza, la cronaca dei conflitti, delle crisi permanenti e dei dilemmi che il popolo ebraico ha dovuto affrontare.

In maniera chiara sono descritte le cause di ogni situazione di conflitto, per farci comprendere che una società non si genera grazie ad un contesto geografico, ma con un’assunzione di responsabilità da parte dell’uomo. E’ possibile vivere isolati in un isola senza sperimentare la solitudine, così come sentirsi profondamente soli anche vivendo in società.

Altre tradizioni hanno bisogno di creare ed identificare mezzi fisici, luoghi nei quali radicare la culla della propria cultura. La cultura greca identifica le proprie radici in Atene, così come Roma è il luogo della nascita della cultura latina. La cultura ebraica nasce nel deserto, “terra di nessuno” e per questo terra di tutti ed è ciò che simboleggia l’universalità della Torà.

Molte religioni e culture concepiscono il deserto come un luogo o “uno stato del sé” auspicabile in quanto ideale, ottimo per comunicare con Dio. Nell’ebraismo, al contrario, il deserto è un luogo nel quale si definiscono le norme per una società in cui le persone vivranno in maniera civilizzata e l’armonia, la concordia e lo sviluppo saranno le chiavi della vita in comune.

Il libro Bamidbar racconta dei quaranta anni nei quali il popolo di Israele viaggia per il deserto, cresce, affronta le sue crisi ed i conflitti fino a che finalmente è capace di identificarsi come nazione.  Lungo tutto il racconto ci viene insegnato che non è possibile crescere, saltando al di là del tempo e dello spazio. Gli anni  passati nel deserto sono necessari per formare il popolo di Israele, svilupparne gli ideali, consolidarne le usanze, orientarne i sentimenti e, ancor più, per sradicare dagli ebrei i vizi e le concezioni  portate seco dalla schiavitù.

Il libro di Bamidbar ci insegna che occorre moderare l’ansia con la quale, spesso, affrontiamo i nostri progetti, dimenticando molti dei passi che bisogna intraprendere perché un risultato sia vitale e veritiero.

La gravità dell’inganno e della frode – Parashat Bechukkotai

“Non ingannerai il tuo prossimo” questo è il comandamento di questa parashà che immediatamente aggiunge, attestando la provenienza della noma: “Io sono Dio.”

Nella Torà il concetto dell’inganno ha un significato molto ampio: per la morale ebraica l’”inganno”, in tutte le sue forme, che sia volontario o meno, che sia legalmente giustificabile o anche solo una deformazione della realtà, significa defraudare un’altra persona. Per la Torà ingannare il prossimo significa approfittare dell’ignoranza di qualcuno su un determinato tema, per esercitare una illecita influenza materiale, spirituale o morale.

Il Talmud cita a titolo di esempio una persona che, a un certo punto della sua vita, si avvia su una cattiva strada, ma dopo se ne pente e torna su quella buona: è considerato “inganno nei confronti del prossimo” anche il solo ricordare ad altri il suo comportamento precedente. Nei confronti di un convertito è proibito menzionare qualcosa che si riferisca in modo offensivo alla sua precedente condizione di gentile. Allo stesso modo è proibito attribuire le disgrazie di colui che siede in lutto al suo comportamento personale, facendo aumentare l’intensità delle sue sofferenze.

I saggi hanno costruito, intorno alla Torà, una “siepe” di protezione che amplia le restrizioni proprie della legge per allontanare la possibilità di qualunque trasgressione. In questa parashà veniamo avvertiti di avere una speciale attenzione nel momento in cui diamo un consiglio ad una persona: anche senza cattiva intenzione un consiglio offerto in modo irresponsabile o che tradisca la fiducia riposta, se risulta ingannevole o conduce inavvertitamente su una strada errata, è considerato una forma di inganno e frode.

Esiste una unica eccezione, tutta umana, nella quale l’esegesi rabbinica assolve determinate forme di inganno. “L’uomo non può essere come una pietra che resta immobile di fronte all’attacco di altre persone” spiega il Talmud, giustificando il fatto che una persona frodata possa comportarsi con colui che l’ha frodato in modo analogo a ciò che ha subìto. Ciò nonostante la vendetta, in quanto azione istintiva nella quale i sentimenti  prevalgono sulla ragione, è esplicitamente proibita dalla Torà, ed il Talmud ne conferma con forza la condanna.

Tuttavia non è questo il caso di colui che, volendo riscattarsi dal danno subito, risponde a colui che lo ha danneggiato, con una azione simile, di uguale livello: l’ unica eccezione contemplata è il delitto di sangue. I nostri saggi, pur non raccomandando “ la compensazione vendicativa per le azioni”, tendono a comprenderla e giustificarla.

La Torà stabilisce che, quando un ebreo si incontra in stato di necessità e ricorre ad un altro in condizioni di maggior agiatezza, quest’ultimo non deve approfittarne: deve offrirgli il suo appoggio per carità e non per interesse.

Infine è da rilevare che per la Torà non è una minore trasgressione l’inganno verso un gentile rispetto all’inganno verso colui che appartiene al popolo di Israele; entrambi i casi sono per l’Ebraismo condannabili in maniera identica.