In questa parashà, l’ultima della Torà, Moshé infine si ritira e lascia il posto alla nuova leadership esercitata da coloro che dovranno succedergli.
“E questa è la benedizione che Moshé, uomo di Dio impartì ai figli di Israele prima della sua morte…” così ci racconta la Torà. Moshé, il profeta, sa che la sua vita non gli appartiene e che, anche nel momento della sua morte, deve occuparsi del suo popolo che fino a quell’istante stesso ha guidato.
Moshé, cosciente del fatto che neanche in quell’istante godrà della propria intimità, e che la sua vita sarà di esempio per le generazioni che verranno, dedica i suoi ultimi aliti di vita ad impartire benedizioni e consigli che attenuino la sensazione di abbandono che proverà il popolo di Israele subito dopo la sua diapartita.
“E salì Moshé sul Monte Nevo, sulla cima della “Pisgà”. Salì per non scendere, e morì nella terra di Moav e fu sepolto nella valle, in terra di Moav e nessuno conosce la sua sepoltura sino ad oggi. Moshè, uomo di Dio vive la morte come un uomo.
La morte di Moshé comportava diversi rischi. Moshé poteva essere idolatrato dal suo popolo che si sarebbe sentito temporaneamente “nudo”, orbato della sua presenza. Moshé “Ish HaElokim”, uomo di Dio, aveva tutte le caratteristiche per essere considerato “figlio di Dio”, divinità egli stesso, con il pericolo che il popolo sviasse in maniera perversa ed idolatra, diametralmente opposta rispetto a tutti gli insegnamenti ricevuti.
A titolo di ulteriore prevenzione, il luogo della sepoltura doveva rimanere segreto. La possibilità di visitare una tomba offre uno spazio ed una immagine concreta ed identificabile adatti ad esercitare una idolatria liberatoria. Permettere che il popolo delegasse la propria responsabilità mistificando la sepoltura di Moshé non era nei disegni del Creatore.
Ai “miracoli ed i prodigi ed i miracoli che con mano potente compì Moshe di fronte agli occhi di tutto Israele”, fa riferimento questa parashà nel suo culmine che è anche quello di tutta la Torà. Rashi, uno dei massimi esegeti della nostra storia, esemplifica queste meraviglie e prodigi raccontando l’episodio nel quale Moshe ruppe le prime tavole della Legge. Da quell’episodio apprendiamo che persino le tavole della Legge, il simbolo più sacro e concreto che il popolo ebraico abbia ricevuto dalle mani di Moshe, devono essere sacralizzate ma non adorate in quanto tali. In determinate circostanze, se davvero necessario per coloro a cui il simbolo è destinato, persino le tavole della Legge possono essere spezzate.
Nel corso di tutta la sua vita ed in particolar modo nel momento supremo, quando si avvicina la morte, Moshè insegna che nessun elemento materiale è sacro di per sé e che di conseguenza nessun simbolo e nessun luogo debbono essere considerati come oggetti di devozione. E’ l’uomo colui che si deve santificare, partendo dai suoi pensieri, dalle sue azioni e dall’impegno con il quale segna il cammino della sua vita, come esempio per le generazioni che verranno.