Quello che si dice è espressione di quello che si è – Parashat Tazria Metzora

Raramente la Torà stabilisce una relazione lineare di causalità tra una azione commessa ed un castigo ricevuto. Questa parashà ci racconta di una affezione non dissimile dalla lebbra conosciuta in ebraico come “tzaarat” che colpisce coloro che incorrono nella calunnia o nella ingiuria “lashon harà”.

“Tzaarat” è la manifestazione esteriore di devianze intime dell’individuo, della sua indole morale e spirituale. L’individuo che calunnia o ingiuria è danneggiato, così come la società che lo circonda, dallo spargere il germe di un male che porta al proprio interno.La sua punizione è di conseguenza una infermità che lo obbliga ad allontanarsi dall’accampamento, dal popolo, dalla società e lo condanna a restare isolato, in completa solitudine. Il castigo vuole essere una correzione: obbligandolo a restare solo si spera che l’individuo cominci a rendersi conto della necessità di rapportarsi in maniera armoniosa con la società. L’unico al quale si affida la cura del malato di tzaarat è il cohen, il sacerdote, e non il medico, cosa che riafferma il concetto di infermità spirituale e non fisiologica.

Da questa parashà emerge che esiste una relazione profonda tra l’anima ed il corpo della persona (Nefesh e Guf). Quello che accade nella mente di una persona, nel suo pensiero e nella sua bocca, è parte di un tutto che richiede una relazione di armonia tra il corpo e l’anima, tra lo spirituale ed il materiale.

La Torà dà una singolare importanza alla parola, base della comunicazione umana. Quello che una persona dice definisce ciò che egli è. La parola, in quanto mezzo di comunicazione, è espressione di ciò che uno è.

La comunicazione raggiunge il suo scopo se pone in relazione l’essere umano ed il suo prossimo; l’espressione è invece lo strumento per comunicare con se stessi, con la propria persona ed è l’essenza della propria individualità. L’essere umano deve essere cosciente del contenuto e del profondo significato delle proprie parole e deve immedesimarsi in esse, prima di usarle come mezzo per comunicare con il prossimo. Il Talmud equipara la maldicenza all’assassino poiché attraverso la parola si possono compiere danni irreversibili.

Oggi, dal momento che si è perso il senso del valore della parola, la Torà ci ricorda che con essa è possibile creare ma anche uccidere e che, per questo, dobbiamo  nutrire nei confronti della parola il massimo rispetto, per salvaguardare l’armonia della società nella quale viviamo.

Riconoscenza e gratitudine – Parashat Tzav

La seconda parashà del libro Vaikrà abbonda di regole circa le offerte e i sacrifici che avrebbe dovuto compiere il popolo di Israele all’interno del tempio costruito a Gerusalemme, il Bet HaMikdash. Nel frattempo le offerte sarebbero state compiute nel Mishkan, il Santuario che viaggiava insieme con il popolo lungo tutto il percorso che lo avrebbe condotto alla terra promessa.

“Un uomo che porterà una offerta”: in questo modo comincia uno dei comandamenti di questa parashà. E’ l’uomo, in maniera esplicita, colui che porta una offerta. Non è possibile portare una offerta a Dio se prima non si è “un uomo” completo.  I sacrifici non sono di per sé sufficienti per avvicinarsi a Dio, se l’uomo, il tipo di uomo che in yiddish si chiama “mentsch”, non è degno di offrire un sacrificio al Creatore. A sua volta il versetto sembrerebbe insegnarci che la persona riesce a raggiungere la sua condizione di “uomo”, “menstch”, solo quando apprende e fa propria l’attitudine al sacrificio. La Torà ci insegna in questo modo che il ricevere, il sacrificare, il dare, il donare, il rinunciare sono le vie per rendere completa la nostra condizione umana.

La nostra parashà ci parla in particolar modo di una specie singolare di sacrificio: il korban todà o offerta di gratitudine. Questa offerta veniva presentata a Dio in una vasta gamma di occasioni, sia in contesti di salvezza fisica, quando ci si trova in un rischio mortale, sia a titolo personale, dopo un parto e dopo una nascita, che comunitario.

Il verbo ebraico “lehodot” ha due significati complementari, sia riconoscere che ringraziare. Uno implica l’altro: non si può ringraziare sinceramente quello che non si riconosce, mentre riconoscere il favore del prossimo e non ringraziarlo difficilmente obbedisce alla spontaneità dell’impulso morale. La gratitudine deve essere reale tanto nei confronti del prossimo quanto nei confronti di Dio: si tratta di un principio fondamentale nella vita di una persona che l’aiuterà a convivere con la società.

Tutti gli uomini dipendono gli uni dagli altri, come recita il Talmud: “Tutti i membri di Israele sono responsabili gli uni per gli altri”. Ringraziare significa manifestare la coscienza di questo vincolo di impegno e dipendenza che ci unisce al Benefattore. Questa è l’attitudine che dobbiamo acquisire nella vita quotidiana, così come nella relazione con gli altri uomini e nella nostra relazione con il Creatore.

Il sentimento trascendentale che dà la Legge alla nostra vita – Parashat Mispatim

“E queste sono le leggi che porrai dinanzi a loro. Se acquisterai uno schiavo ebreo, lavorerà per sei anni ed al settimo lo lascerai libero…” Esodo, 21 1-2.

L’essenza legislativa della Torà si ritrova in questa parashà: non perché contenga il maggior numero di comandamenti (ne abbiamo qui 53,  poi ve ne saranno 63 nella parashà di Emor e 74 in Ki Teze) bensì perché il suo stesso nome, Mishpatim, definisce la sua caratteristica fondamentale. Mishpatim significa leggi. Dato che la maggior parte della gente considera l’ebraismo come un insieme sistematico di leggi, è ragionevole affermare che la sezione della Torà dedicata ai “mishpatim” ce ne fornisca la definizione ed i significati basilari.

Dopo la teofania del Sinai che abbiamo letto nella parashà precedente, la Torà ci insegna adesso che il Dio della Rivelazione è allo stesso tempo il Dio che comanda, che ordina e che l’unicità dell’Ebraismo poggia su questa legislazione totalizzante –  olistica si direbbe oggi – che abbraccia tutti gli aspetti della vita, sia per quanto riguarda la persona che la comunità.

E dal momento che l’ebraismo  non si occupa meno degli eventi sociali che di quelli religiosi, la parte più significativa di questa parashà sembra essere la reciproca compenetrazione  tra l’ambito “civile” e quello “rituale”, l’incastrarsi tra i diritti e le norme relative ai danni sulla proprietà, con la santità dello Shabbat ed i dettagli della kasherut.

Mishpatim si apre con più di sessanta versetti dedicati alla legislazione civile, per portarci immediatamente verso la proibizione di opprimere lo straniero. Ci viene proibita anche l’oppressione della terra, ordinandoci di darle riposo ad ogni settimo anno; lo stesso accade con i nostri schiavi, lavoranti ed animali che devono tutti riposarsi, non meno di noi stessi, ogni sette anni. Ogni aspetto della creazione merita un suo spazio specifico e, di conseguenza, lo Shabbat, giorno di riposo e di celebrazione settimanale è enfatizzato, prima ancora che come rispetto globale della nazione, quale rispetto dell’individuo. La parashà conclude parlando di kasherut, inculcando il messaggio della compassione per il mondo animale, quando proibisce di “cuocere il capretto nel latte di sua madre.”

Ma l’ebraismo è molto di più di un sistema legale, più di quanto possa essere importante e omnicomprensiva la legislazione ebraica. Nonostante il fatto che la bimillenaria traduzione greca della Bibbia conosciuta come Septuaginta traduca il termine ebraico “Torà” come “nomos” (legge), il vero significato letterale di Torà è insegnamento, termine che connota una ampiezza molto maggiore della legge isolata in se stessa.

Ma ancora di più: la Torà è piena di storie, aneddoti e poemi la cui portata è molto superiore a quella del materiale propriamente legale. Il Talmud, legge orale, è una brillante raccolta di domande e risposte, discorsi ontologici, aneddoti biografici e parabole morali. Se l’ebraismo non fosse altro che una religione del “diritto”, i suoi testi più importanti dovrebbero essere presentati con una struttura simile a quella dei testi del diritto romano o inglese.

Il messaggio di questa parashà ci insegna che la legge fornisce un sentimento trascendente alla nostra vita quotidiana, richiede un impegno religioso verso il monoteismo etico e sottende ad una visione perfezionista dell’umano e del sociale.

L’agenda della redenzione – Parashat Vaera

Gli anni della schiavitù e della sofferenza sembrano essere giunti alla fine, Moshe lo  apprende allorché, a partire da questo parashà, Dio si rivolge al popolo di Israele per spiegargli come sarà liberato dall’Egitto e sarà fisicamente e spiritualmente redento da tutte le sue sofferenze.

Questa è la parashà nella quale Dio presenta a Moshe il “programma della redenzione” con tutti i suoi dettagli: quali passi saranno necessari, con quale ritmo, come si determineranno la varie tappe del processo, alla fine del quale il popolo di Israele si ritroverà realmente libero da tutte le limitazioni che lo affliggono.

Dio espone quindi una “agenda” che rivela un aspetto importante della sua intenzione: la liberazione del popolo e dei singoli componenti deve avvenire attraverso un processo che tenga conto della natura umana; gli elementi magici o miracolosi non sono che accessori. La redenzione come stato finale, deve includere una memoria del processo, una memoria analizzabile, dalla quale la presente e le future generazioni del popolo ebraico potranno trarre insegnamento e prendere esempio.

Moshe si rivolge al popolo di Israele, ansioso di comunicargli le buone notizie, e si confronta con la frustrazione di non essere ascoltato e di non essere compreso. La grande notizia della salvezza passa inosservata, il discorso grandioso naufraga di fronte alla fragilità e all’indifferenza degli schiavi ebrei. “E non ascoltarono a Moshe per impazienza ed il duro lavoro”, spiega la Torà.

“Per impazienza…”. Un popolo schiavo non avrebbe dovuto essere ansioso di cogliere un qualunque indizio della possibilità di redenzione? In realtà il popolo non si trova nella condizione di poter prestare attenzione alle parole che gli rivolge Moshe. Forse, proprio  perché impaziente, lo stesso Moshe avrebbe dovuto saper adeguare il suo discorso, elaborandolo appositamente per coloro che lo avrebbero ascoltato.

Moshe non abbellisce con parole il messaggio che porta al suo popolo, lo trasferisce nel suo stato più puro e crudo, esattamente come lo ha ricevuto.  Ma il popolo stava sottomesso ad un “duro lavoro”. Quante volte nella storia siamo stati poco attenti a causa del “duro lavoro”? poco attenti a Moshe, ai dirigenti della Comunità, alla Torà, a Dio, alle situazioni reali vissute dal nostro popolo; situazioni la cui comprensione avrebbe probabilmente evitato esiti fatali.

In questa occasione, come in tante altre, la disattenzione frutto del “duro lavoro”, ostacolò il cammino verso la liberazione. Il lavoro duro non è negativo in se stesso, però bisognerebbe riuscire ad evitare che esso ci condizioni talmente da impedirci di pensare, di riconoscere la nostra situazione, di orientare e sviluppare i nostri ideali, di fare, infine, un uso responsabile di quella libertà che solo noi stessi abbiamo il potere di difendere e conservare.

Che eredità devono lasciare i padre ai figli? – Parashat Vaiechi

Questa parashà ci insegna la fusione tra passato e presente, in una unità la cui forza rappresenta l’impegno di una vita proiettata verso l’eternità.

Il termine “Vaiechi” significa letteralmente “e vivrà” ma viene utilizzato dalla Torà per indicare gli anni che Yaakov aveva vissuto sopra la Terra. Ciò che Yaakov fece durante il suo “passaggio” nella vita fisica è ciò che lascerà ai suoi discendenti quando morirà, è ciò attraverso cui egli vivrà quando non sarà più in questo mondo. Yaakov fu, durante tutta la sua vita, una persona solitaria e sofferente. Tutti gli ostacoli, i dilemmi ed i conflitti che egli incontrò li dovette affrontare in solitudine. Nel momento in cui si sta separando dai suoi figli, Yaakov non fa alcun riferimento al passato, ma predice personalmente ad ognuno di loro ciò che accadrà. In questo momento culminante, prova a trasmettere la sua esperienza alle generazioni successive, per evitare che la sua propria sofferenza possa ripetersi.

E’ evidente l’eredità che Yaakov sta lasciando ai suoi discendenti: una eredità spirituale che è, in realtà, una strada per assicurarsi una continuità, un’influenza che duri nella esistenza temporale.  La morte fisica, la fine delle funzioni del corpo, è inevitabile ed è il finale del cammino di ognuno degli uomini. Però la fine definitiva, la vera morte è la fine  della propria influenza personale sul mondo, l’inefficacia del ricordo, l’oblio.

Spesso entrambe le morti si sovrappongono. Ciò non accade a Yaakov che, proprio nel momento che precede la sua morte fisica, costruisce, nell’eredità per i suoi figli, la colonna sulla quale poggerà la vita spirituale dei suoi discendenti fino ai nostri giorni.

“Poi Giacobbe chiamò i suoi figliuoli, e disse: “Adunatevi, e vi annunzierò ciò che vi avverrà ne’ giorni a venire.  Adunatevi e ascoltate, o figliuoli di Giacobbe! Date ascolto a Israele, vostro padre!”  Con queste parole Yaakov convoca tutti e ad ognuno di loro dona una benedizione speciale. Queste benedizioni sono di fatto la sua profezia sul futuro che attende ogni tribù e, al tempo stesso, l’elencazione delle qualità e delle caratteristiche di ognuna di esse.

Yaakov compie ogni sforzo per far durare nel tempo la propria influenza, sia in quanto padre che in quanto guida di una comunità. Ha la visione necessaria per trasmettere un messaggio collettivo, prevedendo e programmando le situazioni che saranno vissute dalla comunità dei suoi discendenti. Non dimentica però di inviare un messaggio specifico e particolare per ognuno dei suoi figli, nel quale proietterà la sua profonda conoscenza della loro individualità e delle loro prospettive.

La rivoluzione che opera nel materiale dell’universo spirituale – Parashat Mikketz

In questa parashà ci troviamo di fronte all’uomo dai ruoli multipli. Yosef è il sognatore e l’interprete dei sogni. Egli governa l’Egitto, senza però dimenticare il proprio ruolo di figlio e di fratello. A volte egli è un uomo legato con gli elementi materiali ed a volte con l’universo spirituale.

In questa nostra parashà il re dell’Egitto ha un sogno misterioso: nella sua prima parte, sette vacche magre e brutte che divorano sette vacche robuste e belle. Nella seconda parte, sette spighe sottili che divorano sette spighe belle ed abbondanti. La cosa straordinaria è che anche dopo aver divorato animali o vegetali abbondanti e belli, gli esseri magri e squallidi restano uguali senza che avvenga nessun cambiamento nel loro aspetto. Il Faraone è preoccupato: i suoi consiglieri provano inutilmente a spiegare il suo sogno. Non riuscendo a convincerlo diventa necessario eliminare l’umiliazione e ricorrere a Yosef, il consigliere ebreo, per ottenere la sua opinione.

L’Egitto era un impero molto sviluppato ai suoi tempi, il progresso della natura e del paese dipendeva dalle forze pagane. Le leggi naturali, dalle quali dipendono l’esistenza ed il benessere umano ed il suo futuro, sono gli dei stessi. Il Nilo era una delle divinità egiziane e la sua adorazione aveva come scopo quello di assicurarsi che la volontà divina favorisse le necessità umane. Però la storia di Yosef guarda all’esistenza da un’atra prospettiva.

La proposta che Yosef fa al Faraone per salvare il paese dalla siccità è una proposta razionale che non si basa sullo schema pagano. Questa proposta respinge pienamente il piano del Faraone rispetto al futuro. La fede di Yosef nel fatto che sia Dio la fonte del sogno e non gli idoli pagani, gli permette non solo di decifrare il significato del sogno, ma anche di proporre un cammino per comprendere le cause di quello che si sarebbe dovuto fare. Dato che non è possibile evitare la carestia, è possibile rendere meno gravi le sue conseguenze negative. In questo modo Yosef, sulla base del potere conferitogli dal Faraone, costruisce depositi per conservare cibo per gli anni terribili. Yosef vende a coloro che ne avevano bisogno i beni di prima di necessità. Quando terminò il denaro nelle mani dei sudditi, questi pagarono con i loro beni e dopo con le loro terre. Alla fine del periodo di carestia, tutta la terra d’Egitto, ad eccezione di quella appartenente ai sacerdoti del Faraone, apparteneva a quest’ultimo  e tutti gli abitanti d’Egitto, ad eccezione dei sacerdoti erano diventati suoi schiavi.  Questa operatività di Yosef dimostra il contributo di uno dei primi ebrei della storia, al benessere di un impero tanto grande ed importante quale quello egizio. Yosef ha insegnato al Faraone ed ai sacerdoti egiziani come interpretare i sogni, evitando in questo modo le conseguenze nefaste. La riserva degli alimenti per una loro successiva distribuzione e la eliminazione della proprietà privata del denaro, terra e beni, costituirono un esempio di “comunismo” sprovvisto di partiti politici e complicate ideologie.

La concezione economica di Yosef includeva la maggior parte degli elementi dell’economia moderna e proponeva la concentrazione dei beni di produzione nelle mani di un potere centrale e la loro giusta, nonché egualitaria, distribuzione tra i lavoratori. Yosef possedeva un dono speciale per la pianificazione e la gestione di un sistema economico ed impiegò questo dono a beneficio dell’Egitto.

Da quanto abbiamo visto, le qualità  speciali di Yosef non si riducevano al campo materiale ma si manifestavano anche attraverso le sue qualità spirituali ed umane.  Solo in base a queste fu capace di penetrare il pensiero ed i sogni del re di Egitto per poterne decifrare i segreti.

Il confronto tra forza e ragione – Parashat Toledot

I personaggi principali di questa parashà sono i gemelli Esav e Yaakov.  La relazione tra di loro è caratterizzata da un conflitto durato per tutto il corso della loro vita: una disputa cominciata nell’utero materno e proseguita in ogni incontro, come vedremo fino alla fine della nostra parashà, quando Yaakov fuggirà da casa temendo la vendetta del fratello.

Yaakov e Esav simboleggiano due modi, talvolta concomitanti e talvolta alternati, della maniera di essere del popolo di Israele.  Si comprende così la preferenza del padre per l’uno e della madre per l’altro, in funzione di aspettative differenti rispetto al popolo che sarebbe nato dalla loro progenie.

Itzhak è un uomo sedentario essenzialmente passivo. La forza ed il potere di decisione di Esav lo incantano e vede in lui una sicurezza proiettata verso il futuro.  A differenza del suo sposo, Rivka comprende che saranno le doti intellettuali di Yaakov che daranno trascendenza alla vita del popolo in futuro.

Guardando alla personalità di entrambi i fratelli  con occhio distaccato, notiamo la differenza, ma anche la complementarietà, dei  loro caratteri. Le loro attitudini vitali corrispondono  a diverse necessità: non tutti gli stimoli che ci vengono proposti dalla realtà ammettono risposte di uguale intensità.

Così Amalek ci rimanda alla personalità di Esav, mentre con la fondazione di Yavne e del suo circolo di saggi abbiamo un approccio che si indentifica nettamente con Yaakov.

Possiamo capire la tensione che vivono Itzhak e Rivka quando devono decidere quale dei loro figli riceverà la benedizione, affrontando il dilemma di chi sia il migliore, di chi abbia le capacità per essere il capo del popolo ebraico. Itzhak era propenso ad un guerriero con la forza di difendere le sue idee e proteggere fisicamente la sua famiglia e per questo pensava che dovesse essere scelto Esav.  Rivka era più propensa a pensare che il mondo si regge sulle idee e che i filosofi, gli intellettuali, i pensatori, siano coloro che realmente hanno influenza su di esso.

Nel momento in cui Itzhak deve impartire la benedizione della primogenitura, quando Yaakov prova a travestirsi come suo fratello, vediamo una sintesi di quelli che fino ad ora erano gli “opposti”.  “Le mani sono di Esav” dice Itzhak ed aggiunge: “e la voce è quella di Yaakov”. Non è attraverso strutture rigide che si può rispondere efficacemente alle necessità ed alle sfide, ma attraverso una adeguata sintesi di ciò che può apparire antitetico.

Le separazioni creano dicotomie, confronti, violenza, fanatismo. È necessario incontrare l’armonia e l’equilibrio tra concetti e personalità differenti.  Le mani di Esav devono imparare a convivere con la voce di Yaakov.

In molte occasioni, così come per lo Stato di Israele, è necessario unire le braccia del guerriero con la voce del saggio per giungere alla modalità più idonea per fronteggiare la realtà.

Il Dor Emscheh dell’ebraismo – Parashat Chaié Sarah

La Torà, nei suoi infiniti approcci e letture, fa in modo che il nostro orizzonte non sia limitato da un solo personaggio o da una sequenza di situazioni stereotipate, ma ci fa continuamente incontrare personalità differenti al fine di poter spiegare ogni situazione ed ogni processo della nuova realtà della cosmogonia ebraica.

In questo modo da Abramo e Sara passiamo ad Itzhak e Rivka, una nuova coppia archetipica della vita ebraica. In questa parashà viene delineato quello che, secondo la concezione ebraica, è il percorso naturale della vita umana: la morte e l’unione coniugale che sono intimamente connessi in un unico processo vitale. Sara muore e suo figlio si unisce in matrimonio. Abramo cerca un luogo appartato per seppellire la sua sposa. Da questo momento in poi, l’idea di uno spazio separato e sacro per il riposo eterno, sarà una costante della cultura di Israele.

Eliezer servo di Abramo, viene istruito a cercare una sposa per Isacco, ma non tra la gente di Canaan, non tra i vicini, bensì nella terra e nella famiglia che Abramo aveva abbandonato. Abramo aveva lasciato la sua famiglia e la sua terra per trovare se stesso ed egli sa dunque benissimo che il valore della sua rivoluzione è nella terra che abita, non nei suoi abitanti; il suo messaggio rivoluzionario ha a che fare con questa terra perché ad essa è destinato e perché il legame con essa permane ovunque egli sia. Però sa anche che è più probabile trovare la moglie adeguata a suo figlio lì dove lui è nato, in quello stesso solco e che quindi anche questa donna sarà straniera nella terra dove andrà ad abitare.

Itzhak è un personaggio passivo,  introverso. Viene condotto con mano forte incontro alla sua vita. Inizialmente viene condotto da suo padre al sacrificio, in seguito gli dicono con chi si dovrà sposare, e sarà sua moglie colei che deciderà in sua vece a quale figlio dovrà concedere la benedizione. Tra i tre patriarchi della Torà, Itzhak è l’unico che nasce, vive e muore nella Terra di Israele. E’ anche l’unico monogamo ed è anche l’unico per il quale è detto che “ama” sua moglie.

La rivoluzione era stata cominciata da suo padre Abramo; il compito che Itzhak deve portare a compimento è la continuazione dei “nuovi” valori e il loro sviluppo e non una nuova ribellione o una nuova creazione. Itzhak rappresenta il dor emschech, la continuazione delle generazioni, senza la quale l’intera rivoluzione sarebbe risultata sterile e passeggera.

Nella vita di Itzhak l’amore riveste un ruolo fondamentale e multiforme. Da un lato, Itzhak è l’unico sedentario tra tutti i patriarchi e quindi ha tempo e predisposizione ad amare. Ama senza fine sua madre e quando questa muore, ama sua moglie… “e si consolò Itzhak per sua madre”. Dall’altro la sua solitudine non è consona con una vita nomade ed una attività vertiginosa quale era stata quella di Abramo. Le sue sofferenze e la sua solitudine si manifestano in una necessità senza fine di amore: di amare e di essere amato. Siamo di fronte ai primi personaggi romantici della Torà che si innamorano a prima vista: Rivka “cadde dal cammello” quando lo vide e lui si innamorò di lei a sua volta “a prima vista”.

La sofferenza di Itzhak, un uomo che saggiamente compie il suo dovere e vive nella terra che il Creatore aveva promesso a suo padre, in piena armonia con tutti i valori che aveva ereditato, riceve dal destino anche un amore straordinariamente intenso. La legge della compensazione si mostra in modo ineffabile: colui che vive la vita più tragica e priva di attività, risulta essere, finalmente, colui che ne vive più intensamente la completezza.

Va verso ciò che sei – Parashat Lech lechà

La Torà adotta un approccio deduttivo della Creazione. Mentre progrediamo nei suoi capitoli si specifica sempre di più l’oggetto della sua attenzione. Quando giungiamo alla parashà di Lech lechà, dove ci troviamo adesso, tutto sembra dire che ciò che precedeva era preparato per introdurci alla scena dell’apparire di Abramo. Il Talmud spiega che il padre di Abramo era un fabbricante di idoli, oggetti di culto materiale, e che contro questi idoli Abramo focalizza la sua ribellione. Abramo non accetta il culto “orizzontale” e l’idolatria estremamente diffusa nella sua epoca e di fatto cerca di superarla, scegliendo per se stesso la ribellione e la spiritualità e, a sua volta, è scelto da Dio per “trovare” il monoteismo.

Il Signore disse ad Abramo: «Vai via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti mostrerò»”.Prima di tutto: “Vai via”, vai per te, cerca te stesso e la tua identità. Per poter raggiungere ciò dovrai abbandonare “la tua terra”, la terra dei tuoi beni materiali, “il tuo parentado”; dovrai separarti da tutto ciò che hai ricevuto per via emozionale, dalla matrice che ti è stata impressa sin dall’istante della fecondazione e dai tuoi legami affettivi; dalla “casa di tuo padre”, dalla cultura, dalla civiltà e da tutta la struttura morale ed intellettuale in cui sei vissuto fino ad adesso.

Abramo fu il primo olé, il primo immigrato in terra di Israele che ha certamente affrontato difficoltà ben superiori di quelle incontrate da un immigrato dei nostri giorni. Abramo parte da Ur Casdim, uno dei maggiori centri culturali ed economici della sua epoca, e si dirige verso se stesso, per “incontrarsi”. Abramo, nato nel seno di una famiglia “agiata”, non parte a seguito di una persecuzione politica e tantomeno a causa di una crisi economica. Nella sua situazione, separarsi dalle proprie radici è una delle più grandi prove che una persona possa affrontare. Senza radici culturali, familiari, sociali, spirituali né tantomeno geografiche, l’uomo non ha un universo di riferimento con il quale identificarsi: Abramo si forza a vivere al massimo livello della solitudine esistenziale.

Abramo si trasforma in un “eletto” quando intraprende il suo cammino di solitudine. Pensare in maniera differente rispetto alla società e al potere costituito e osare denunciarlo pubblicamente, è un atto di grandezza ed onestà che richiede una straordinaria coerenza intellettuale. Abramo osa intraprendere un nuovo cammino, assumendo su di sé i rischi, i dilemmi e le difficoltà. Crede in una idea, forgia un ideale e percorre con determinazione la strada che porta alla loro realizzazione.  La grandezza di Abramo non è fondamentalmente filosofica, ma affonda le proprie radici nel suo coraggio e nel suo valore.

Il primo uomo, Adam HaRishon ed i suoi figli, furono i primi monoteisti. Quando gli uomini cominciarono a considerare le stelle e gli altri segni come  “rappresentanti” o “intermediari” di Dio e, attraverso la loro adorazione, dimenticarono il culto dell’Unica divinità,  Abramo ritorna alla Fonte Primordiale. La rivoluzione di Abramo è più umana e sociale che filosofica. Il concetto di “scelto”, nato con Abramo, si giustifica con le caratteristiche specifiche dell’uomo. Abramo si mostra come un “libero pensatore” che non accetta in maniera coatta le concezioni della vita predominanti nella sua epoca. E’ un guerriero anticonformista che non si arrende di fronte all’altare classico dei comuni valori.

Abramo è un uomo che ha posto una domanda e che desidera comprendere; è il prototipo del rivoluzionario onesto che dista molto dall’immagine che abbiamo del pastore “anziano con la barba” che porta suo figlio al sacrificio, sentendosi impotente. Abramo è un uomo la cui grandezza morale e spirituale è rivelata dai valori che la sua fede sostiene.

Il reale soggetto dell’elevazione – Parashat Noach

In questa parashà gli abitanti della terra provano ad avvicinarsi a Dio costruendo una grande torre materiale. Ignorando l’impossibilità di poter superare la distanza fisica tra la creatura ed il Creatore, fanno ricorso all’altezza materiale per potersi avvicinare a Dio: “Costruiamo una città e una torre la cui sommità giunga al cielo e saremo famosi perché non saremo dispersi sopra la faccia della terra.” L’ingenuità della proposta diventa palese nell’ironica reazione del Creatore: “Scendiamo e confondiamo le lingue perché non possano più intendersi in questo modo.” Dio sembra sorridere di fronte alla pretesa umana di arrivare in cielo attraverso una scala materiale.

Questo episodio si è ripetuto in maniera costante nel corso della storia. Una infinità di uomini, con modalità le più diverse, ha cercato una gloria trascendente dal materiale, attraverso il potere terreno. Abbiamo cercato senza alcun limite la soddisfazione personale esercitando il potere su altri uomini, ricorrendo a immagini e a discorsi di apoteosi, trionfalistici ed escatologici. E tristemente, ciò accade anche ai nostri giorni.

L’obbiettivo che si pongono i costruttori della Torre di Babele sembrava essere totalmente positivo: essi volevano essere uniti, non disperdersi, avvicinarsi al Creatore, raggiungere allo stesso tempo una elevazione spirituale, collettiva ed individuale. Nonostante l’obbiettivo avesse un carattere solo apparentemente positivo, esso fu attuato sulla terra per decisione dello stesso Creatore. Secondo quanto espresso da molti esegeti biblici, il paradosso consiste nel fatto che una torre, un edificio materiale, tende ad essere motivo di separazione e di situazioni conflittuali tra le persone, anziché essere motivo di unificazione attorno ad un progetto spirituale.

Una costruzione intorno alla quale si identificasse una comunità, una città, una lingua, una ideologia e che portasse anche ad una unione omogenea di elementi culturali, non sarebbe sufficiente per rendere tale unione sincera e stabile.

Esiste una profonda differenza tra la costruzione di quella torre, il cui obiettivo risiedeva in se stessa, e la funzione che svolgono le Sinagoghe ai nostri giorni, sin dai tempi del Talmud. La Sinagoga, il Bet HaKnesset , è la Casa di Riunione e rappresenta l’ingresso, il portone attraverso il quale le energie e le preghiere delle singole persone si sommano e salgono verso l’alto. Sono le preghiere, le energie e le intenzioni con cui sono pronunciate e concepite, che costituiscono il reale soggetto dell’elevazione, non certo la Sinagoga in quanto tale, né le sue pareti, né i suoi simboli materiali.

La Torre di Babele aveva la presunzione di essere essa stessa, pietra su pietra, l’entrata del Cielo: è già la pretesa di far entrare una pietra in Cielo che costituisce di per sé una grossa profanazione. Per l’ebraismo, il Bet HaKnesset è un mezzo di aggregazione per il raggiungimento di un obbiettivo congiunto che ogni individuo persegue attraverso la comunità.

Nella torre di Babele il mezzo si è trasformato in obbiettivo ed è degenerato in confusione. La struttura di questo episodio è utile a per analizzare i differenti livelli della vita umana. Secondo quanto espresso nel Talmud: “Quando esiste l’amore tra l’uomo e la donna, anche lo spessore di una spada è sufficiente a separarli, quando l’amore non esiste neanche un palazzo li può ricongiungere.” L’abitazione è un mezzo, uno strumento di conservazione ma non può mai sostituire la funzione di coloro che vi risiedono.