L’appartenenza ad una identità collettiva – Parashat Vaikrà

Rav Eliahu Birnbaum

Il libro di Vaikrà, terzo nell’ordine in cui è divisa la Torà, comincia insegnando i differenti tipi di sacrificio che dovevano essere offerti a Dio da parte di tutto il popolo di Israele.

All’inizio della nostra parashà ci imbattiamo in una espressione molto particolare che non ha nessuna analogia possibile nel resto della Torà: “E chiamò Moshé e parlò l’Eterno dal Santuario dicendo: Parla ai figli di Israele e dì loro: “Chiunque voglia fare una offerta all’Eterno, tra gli animali…prenderà la sua offerta”. Dio ha parlato a Moshé dal Santuario.

Generalmente la Torà si esprime in questo modo: “E parlò Dio a Moshé…”; questa è l’unica occasione nella quale, nonostante l’infinita potenza della voce divina, ad ascoltare Dio c’era solo Moshé e solamente quando entrava nel Santuario trasportabile del deserto.

Ma Dio parlava davvero solo con Moshé? ci verrebbe da chiederci. O forse parlava solamente in un determinato spazio fisico? La concezione ebraica del divino tende a considerare che Dio è presente in ogni tempo, in ogni luogo ed in ogni spazio così come in ogni elemento del creato. Avere un messaggio di Dio è un qualcosa che dipende totalmente da colui che riceve, data la non mutabilità del trasmettitore. Giustamente è nel Santuario, solo in esso, che Moshé era capace di “sintonizzarsi” con l’Eterno, ponendo la sua “antenna”, il suo decodificatore interno nel solco del linguaggio divino, ricevendo in modo diretto il messaggio del Creatore.

Così come siamo soliti dire, i racconti della Torà sono dei prototipi; anche da questo racconto possiamo estrarre insegnamenti intensi e viventi per le nostre vite. Tutti trascorriamo molto tempo fuori dal “Santuario” sia come tempo privato – stato interiore di pace, di elevazione, di ricettività sentimentale – che come tempo collettivo in senso comunitario. Quando siamo fuori, nel nostro lavoro, per strada, di fronte ai problemi ed alle difficoltà della vita non abbiamo a disposizione l’attenzione necessaria per percepire la melodia divina, la voce di Dio, la voce del’ebraismo. Non perché questa voce non sia presente, ma perché sono le nostre orecchie a restare chiuse ed incapaci di ascoltare.

Dobbiamo quindi noi fare quello che ha fatto Moshe e trovare il tempo necessario per entrare nel Santuario, sintonizzare correttamente l’onda adeguata e immergerci nei sapori, nell’aroma, nei suoni della pace spirituale che l’ebraismo ci potrà donare. L’appartenenza ad una identità collettiva è un privilegio che si deve difendere, ma è anche una responsabilità che non si deve mai dimenticare.