Parashat Vayakhel – I due volti della vita umana

di Rav Eliahu Birnbaum

Questa parashà comincia con un riassunto delle regole relative alla costruzione del Mishkan, il santuario ebraico nel deserto. Sorprende che la prima mitzvà che viene menzionata sia niente meno che quella dell’attenzione allo Shabbat, la proibizione del lavoro nel giorno settimanale di riposo.

 

Il Mishkan aveva lo scopo di essere un centro spirituale, doveva essere lo spazio sacro che accompagnava Israele ovunque il popolo si trovasse. Lo Shabbat, d’altro canto, era il lasso di tempo destinato settimanalmente al sacro.

La Torà pone varie eccezioni alle proibizioni sabbatiche: lo Shabbat può essere profanato in ogni caso per salvare una vita umana e le sue regole sono posticipate per esempio di fronte alla sacralità superiore dello Yom Kippur. Potrebbe essere logico credere che, per accelerare la costruzione del santuario sarebbe stato anche permessa la profanazione dello Shabbat, considerando che Shabbat e Mishkan condividono una identica missione: elevare l’uomo a Dio. La Torà insegna invece ci dice che il Mishkan non deve essere costruito di Shabbat e che una mitzvà non annulla un’altra, che una missione sacra non giustifica mezzi profani. In definitiva, in questa parashà ci viene insegnato che il fine non giustifica i mezzi e che il bene può trasformarsi in male quando i mezzi per raggiungerlo non sono giusti, onesti, coerenti con tutto il corpo morale e normativo ai quali la vita si deve attenere.

Per finanziare il Mishkan, il santuario che accompagnò il popolo di Israele nel suo peregrinare dopo l’uscita dall’Egitto, furono utilizzati due mezzi differenti e complementari di raccolta. Da un lato si chiesero a tutti “offerte”, donazioni secondo la volontà, le possibilità, le motivazioni personali e le condizioni specifiche di ognuno. Da un altro lato fu chiesto per una unica volta un “mezzo shekel” quale contributo obbligatorio per ciascun individuo. Spiegano i nostri saggi che l’ammontare delle donazioni risultava ampiamente sufficiente per portare a termine l’opera di costruzione. Da questo comprendiamo che l’esigenza della mezza moneta, il “mezzo shekel”, non poggiava su una effettiva necessità ma era determinata dall’esigenza che ogni individuo contribuisse nello stessa modo e che, al di là delle donazioni, tutti partecipassero in ugual misura.

La necessità di una siffatta modalità di raccolta trova un’ampia spiegazione nel Talmud in cui, tra l’altro, è scritto che la vita dell’uomo è paragonabile ad una moneta ed ha due facce che possono essere molto differenti ma che sono imprescindibili l’una dall’altra: nessuna delle due può esistere senza l’altra.

Nella vita dell’uomo, i volti o le facce, sono da un lato ciò che è innato, ciò che egli ha ricevuto come eredità dalla sua famiglia, dalla sua educazione, dall’ambiente in cui è nato e cresciuto e dall’altro quanto ha raggiunto, in bene e male, nel prendere decisioni per la sua vita, nel scegliere il suo cammino, nell’esercizio responsabile della sua libertà. La “mezza moneta” è un simbolo di appartenenza, è il contributo ineludibile dovuto per il solo fatto di essere quello che si è; la donazione volontaria, invece, è l’altra volto, l’esercizio della libertà applicata al decidere, in accordo con i propri criteri e le proprie possibilità, così come per gli altri dilemmi che la vita ci impone continuamente di affrontare.

La Torà ci insegna che queste due facce della vita devono essere in armonia sia a livello individuale che collettivo: ne consegue che anche la vita comunitaria ha, come il singolo individuo, due facce il cui equilibrio permette e nutre il suo accrescimento e la sua continuità.

Parashat Sheminì – La fatale eresia degli eccessi

di Rav Eliahu Birnbaum

La nostra parashà ci racconta finalmente l’inaugurazione del Mishkan che avrebbe accompagnato il popolo di Israele fino al momento in cui avrebbe potuto costruire un tempio permanente. Il popolo intero festeggia fino al momento in cui due figli di Aharon, cohanim, muoiono all’interno del Santuario mentre porgono la loro offerta. “E giunsero i figli di Aharon e portarono un fuoco estraneo all’Eterno che non fu loro comandato”. Presentarono una offerta a Dio che non era stata loro richiesta, che non era prescritta dalla Torà e per questa ragione morirono.

L’ebraismo annette un’ importanza speciale alla volontà della persona nel momento in cui compie le mitzvot: senza tale volontà l’uomo non può generare nuovi sistemi di norme e di usanze nel segno della religione. Partendo dalla norme ricevute e cominciando a rinnovarle, l’uomo corre il rischio di assumere una attitudine di estasi e perdere in questo modo il senso stesso della propria religione. Quando l’uomo perde di vista la differenza tra la volontà di Dio e la volontà umana smette di adorare Dio e cade nell’idolatria: idolatria significa proprio concepire strade errate per adorare se stesso.

La vita tradizionale e culturale ha bisogno di attitudini definite, e per questo è molto importante che l’esperienza religiosa abbia un segno sociale e normativo all’interno del quale si possano sviluppare le volontà umane.

La vita tradizionale e religiosa non può solo basarsi unicamente su atti di fede, devozione, volontà, dono ed estasi ma ha anche bisogno di norme e di una morale che aiutino l’uomo a vivere in accordo con la volontà divina, ogni giorno.

I figli di Aharon erano capi del popolo e la loro condizione di leader li rendeva responsabili non solo di se stessi ma anche di coloro che guidavano. Questo fattore deve essere stato determinante per il loro castigo, per non dar spazio a precedenti di devianza volontaria rispetto alla norma, affinché non ci fosse un esempio negativo per le generazioni che sarebbe seguite.

Come si costruisce un’identità collettiva – Parashat Terumà

“Dì ai figli di Israele che prendano un’offerta per tutti g li uomini che diano di cuore” ordina Dio a Moshè. “Offerte di argento, di rame, di lana tinta… e mi costruiranno un santuario…”. Verrebbe spontaneo chiedersi: “Per quale motivo Dio ha bisogno che il popolo parteci e contribuisca alla costruzione del santuario?” Ma come accade di solito quando si ricercano risposte semplici, una tale domanda confonderebbe il tema con la risposta. Non è Dio che ha bisogno di collaborazione né ha bisogno di santuari, ma sono il popolo e i singoli individui che lo compongono, che ne hanno bisogno. che di fatto soffrono per la mancanza di elementi materiali a cui aggrapparsi, di azioni che tendano a rafforzare una coesione e che li identificano come gruppo esistente.

La collaborazione economica di ogni individuo è stata sempre e continua ad essere un mezzo efficace per valutare ed eventualmente consolidare il livello di impegno delle persone con l’identità collettiva alla quale appartengono. Questo impegno che deve essere costantemente riaffermato, “ognuno secondo le sue possibilità”, in modo che si possa stabilire una comunicazione del gruppo con il Creatore, in modo che sia tangibile la possibilità di dialogo tra un intero gruppo umano ed il suo Redentore.

Non è sufficiente il “na’asè venishmà” il “faremo e ascolteremo”, pronunciato ai piedi del monte Sinai, occorre una prova che renda percettibile lo sforzo collettivo attraverso il quale rendere palese l’impegno di ogni membro della congregazione.

Fino a questa parashà, il popolo di Israele si è comportato come un soggetto ricevente: è stato liberato dal giogo egiziano, è stato portato nel deserto attraverso i miracoli e, in modo non meno miracoloso, ha ricevuto il suo sostentamento. Ora è giunto il momento in cui chi ha ricevuto, deve rispondere alla generosità divina divenendo un “trasmettitore”; il soggetto passivo dei miracoli di Dio deve diventare l’attore della propria storia e realizzare per il suo Dio uno standard che sintetizzi una particolarità rispetto alle divinità dei popoli vicini.

La costruzione del Santuario non è ristretta a un settore benestante del popolo di Israele, ma per la stessa essenza, del suo significato e rispettando le possibilità di ognuno, è una missione che anche una semplice omissione individuale potrebbe invalidare. Nessuno può restare fuori da questa missione. Si tratta di uno sforzo comune e congiuntivo per tutti i beneficiari della grazia di Dio ed il cui valore quantitativo è soggetto alle possibilità collettive ed individuali.

Ancora oggi questo schema resta immutato. Il contributo individuale, senza eccezione alcuna, resta una condizione necessaria per l’ esistenza di tutta l’identità collettiva. La collaborazione economica per un progetto congiunto rappresentata oggi dalla solidarietà per gli indigenti di ogni comunità così come per la necessità dello Stato di Israele, non smette di essere un’azione collettiva per il benessere di tutta la comunità.

Rav Eliahu Birnbaum

Iehudí Olamí

Iehudí Olami es un magnífico libro, el cual trae la increíble historia del pueblo judío en todos los rincones del mundo.

Historias exóticas: desde musulmanes del Lejano Oriente hasta los bosques amazónicos de América del Sur, desde la comunidad finlandesa fundada por un cantonés liberado hasta la escuela judía en Zimbabwe.

Las historias clásicas: desde los anusim de Portugal hasta la renovación de la vida moderna en Polonia.

El libro presenta más de 400 páginas de cromo bellamente diseñadas acompañadas de imágenes espectaculares, recopilación y reenvío de más de 50 artículos que aparecieron en el suplemento Shabat de Makor Rishón durante tres años.

Este es un libro que se abrirá una y otra vez. Puede adquirirlo aquí.

Importante: el libro es en hebreo

El compromiso del hombre hacia Dios – comentario a la parashá de Trumá

Esta parashá concurre a enseñarnos acerca de los fundamentos imprescindibles para construir una identidad colectiva. “Dí a los hijos de Israel que me traigan ofrendas donadas por todo hombre que las diere de corazón”, ordena Dios a Moshé. “Ofrendas de plata, de cobre, de lana teñida … y me harán un santuario…”.

Basta un mínimo de suspicacia para preguntarse: ¿Es que necesita Dios, bajo cualquier punto de vista, que los integrantes del pueblo contribuyan para la construcción del santuario?

Una vez más, como sucede usualmente en la búsqueda de respuestas simplistas, esta pregunta equivoca el sujeto de la cuestión. No es Dios quien necesita colaboraciones ni santuarios, sino el pueblo, cada individuo del pueblo de Israel, son quienes adolecen, realmente de elementos que materialmente signifiquen un compromiso real, de acciones tendientes a reforzar una cohesión que los identifique como grupo consistente.

La colaboración económica de cada individuo ha sido siempre y continúa siendo un medio eficaz para evaluar, y eventualmente consolidar, el nivel de compromiso de las personas para con la identidad colectiva a la que pertenecen. Este es el compromiso que debe ser reafirmado a cada momento, “cada uno en la medida de sus posibilidades”, para que tenga sentido pensar en una comunicación grupal con el Creador, para que sea creíble la alternativa de un diálogo entre un grupo humano unánime con su Redentor. No es suficiente el “Naasé Venishmá”, “Haremos y Oiremos”, pronunciado al pie del Monte Sinai; es menester que se haga perceptible el esfuerzo colectivo a través de patentizar particularmente el sacrificio de cada individuo de la congregación.

Hasta el momento que relata nuestra parashá, el pueblo de Israel ha actuado como sujeto receptor: ha sido liberado del yugo egipcio a través del desierto por medio de milagros; de modo no menos milagroso ha recibido su sustento. Este es el momento en que el receptor de gracias ha de corresponder a la generosidad divina deviniendo transmisor; el sujeto pasivo de los milagros de Dios debe tornarse actor de su propia historia, y realizar para su divinidad un estandarte que sintetice su singularidad ante los pueblos vecinos.

La construcción del santuario no está restringida a un sector especialmente pudiente del pueblo de Israel; por la propia esencia de su significado, y respetando las posibilidades de cada uno, es una misión que cualquier omisión individual es capaz de invalidar. Nadie puede quedar fuera de ella. Se trata de un esfuerzo conjunto, común a todos los beneficiarios de la gracia de Dios, y cuyo valor cuantitativo está sujeto a las posibilidades colectivas e individuales.

Aún hoy, este esquema permanece incambiado. La entrega individual, sin excepciones, sigue siendo condición necesaria para la consistencia de toda identidad colectiva. Y la colaboración económica a un proyecto conjunto, representada hoy en día por la solidaridad con los necesitados de cada comunidad así como con las necesidades de Estado de Israel, no cesa de ser una apuesta colectiva al bienestar de toda la comunidad.

Agenda de un Rabino

El mes pasado visité una de las comunidades importantes de Europa y como es mi costumbre, ni bien llegué me puse en contacto con el rabino local para saludarlo. El rabino se alegró de oír mi voz y hasta me invitó para el día siguiente a un evento comunitario: un funeral. En muchas oportunidades, cuando visito comunidades, los rabinos me invitan a acompañarlos al cementerio a los efectos de participar en la purificación del fallecido, de los discursos fúnebres, de los preceptos del entierro y el funeral. Todo esto forma parte del mundo de los rabinos de la diáspora y muy probablemente esta es la razón por la cual conozco los aeropuertos y los cementerios judíos de cada ciudad en casi todo el mundo.

Si bien cada funeral es diferente y único ya que cada ser humano es un mundo en sí mismo, el funeral en cuestión no era para nada rutinario, tal como descubrirán a continuación. El fallecido había nacido en la ciudad que yo visitaba y veinte años atrás había emigrado a New York. Antes de partir al exterior estaba casado por “jupe” con una mujer judía, y al radicarse en New York se separaron sin que el finado haya entregado “Guet”  (divorcio). Una vez establecido en los Estados Unidos inició una nueva relación de pareja, pero esta vez con un hombre no judío. Tras fallecer a los ochenta y dos años de edad se decidió enterrarlo junto a su familia en Europa.

Y hete aquí que un viernes por la mañana, nos encontramos frente al ataúd de una persona fallecida, de un lado se encuentra su mujer judía de la cual se separó física y emocionalmente veinte años atrás sin divorciarse y del otro se encuentra la pareja masculina no judía con quien vivió en cercanía física y emocional durante las dos últimas décadas. Hasta aquí, se trata de una escena razonable en términos de nuestro mundo postmoderno, pero grande sería la sorpresa del líder espiritual comunitario cuando la viuda y la pareja del difunto se le acercaron a realizarle una consulta rabínica. La viuda le explicó al rabino que si bien ellos nunca se divorciaron formalmente, tras tantos años de separación ella no siente cercanía suficiente al fallecido por lo que no desea guardar siete días de luto por él (“shive“), ya que no se trataba de su pareja. Por su parte, el compañero de los últimos años del fallecido le expuso al rabino el tenor de la relación que mantenían, lo profundo de su ligazón espiritual y emocional a pesar de no ser judío, por lo que preguntó si podía guardar luto siete días y recitar Kadish en su memoria. En otras palabras, “un mundo invertido estoy viendo”[1] … la mujer judía no quiere guardar luto y la pareja masculina no judía sí.

Consultas de este tipo son sin lugar a duda novedosas pues tienen  origen en la transformación que operó la estructura familiar en un mundo que es diferente en cuanto a sus valores y en un entorno judío no tradicional y a veces hasta asimilado. Tras largos años de quehacer rabínico y ocuparme de consultas halájicas y comunitarias, pensé que ya había visto y oído todo. Sin embargo, la realidad, que es más fuerte que cualquier consideración,  nos enfrenta a nuevos dilemas. Según lo expresado por Rabí Iosef Albo en “Sefer Haikarim” o “El libro de los principios” (43:23): “la Torá de D´s no puede abarcar todos los detalles de todas las épocas ya que constantemente se innovan particularidades en el área de las cuestiones humanas y estas son tan numerosas que no pueden ser incluidas en un solo libro. Por esta razón Moshé recibió en Sinaí instrucciones orales respecto de las cuestiones insinuadas brevemente en el texto escrito, para que de esa forma en cada generación los sabios correspondientes puedan encontrar la respuesta a los casos novedosos”

La primera pregunta, respecto del duelo por una pareja separada sin divorcio formal es sumamente interesante. Según la halajá una persona está preceptuada de guardar luto por siete personas que le son cercanas en primer grado: el padre, la madre, un hermano, una hermana, un cónyuge, un hijo y una hija. Tal como precisó Maimónides: “Según la Torá una persona debe guardar luto por su padre, su madre, su hijo, su hija, su hermano y su hermana por parte de padre. Rabínicamente debe también guardar luto el marido por su esposa y la mujer por su marido así como también por su hermano o hermano por parte materna” (Levítico 21:2, Rambám Sefer HaShoftimHiljot Avel 2:1, Shulján Aruj Ioré Deá 374:4).

Sin embargo, ¿cómo se puede definir cercanía? ¿De acuerdo al status legal  o según la situación afectiva? ¿Mientras el documento nupcial está vigente los cónyuges deben enlutarse uno por el otro? ¿Acaso en una pareja que se separó y ya no se quiere, se debe guardar siete días de luto a pesar de que se desvaneció el sentimiento de cercanía?

Uno de los primeros juristas que se enfrentó a este tema fue el “Maharshal” (Rabí Shlomó Luria 1510-1573) que fue uno de los grandes rabinos de Polonia del siglo XVI y autor del libro que comenta el Talmud titulado “Yam Shel Shlomó“. Es difícil de transmitir en qué medida los conceptos vertidos por el Maharshal hace cientos de años dan testimonio de una inmensa sensibilidad a la psicología humana: “Llegó ante mí el caso de una persona que se peleó con su mujer y tenía claro que quería divorciarla, mas durante este episodio la mujer fallece y le indiqué no guardar luto por ella… pues cómo se puede ordenar a alguien que se enlute cuando su corazón no está de luto, ya que no se trata de un día triste para él, y si bien nuestros sabios no diferenciaron entre cónyuges que se quieren y aquellos que no, mas en este caso considero que corresponde hacerlo… y en este caso particular todos coinciden que no hay amargura en el corazón ni luto“. El Maharshal agrega: “He aquí que las personas se sorprendieron por mi decisión y se la envié a  los rabinos ancianos de Jerusalém y uno de ellos que es un sabio destacado  me escribió que ellos concordaban con mi decisión” (Yam Shel Shlomó Guitín 2:4).

Estos conceptos del Maharshal indudablemente implican una gran innovación. El deber del luto entre cónyuges no está definido únicamente por el status legal de la pareja sino también por el vínculo emocional que mantienen. En este caso, la pareja estaba por divorciarse y de hecho ya no sentían cercanía emocional o de pareja alguna. El argumento del Maharshal se basa en que “cómo se puede ordenar a alguien que se enlute cuando su corazón no está de luto, ya que no se trata de un día triste para él“. Esto es, no se le puede imponer luto al alma de la persona.

Aparentemente, la decisión del Maharshal fue tan novedosa que tal como lo relata, no fue fácilmente aceptada hasta que recibió el aval de los ancianos sabios de Jerusalém. De todas maneras, la mayoría de los juristas no aceptaron su postura a la hora de sentenciar halajá.

El Rav Ovadiá Iosef escribió: “en el caso de una mujer que fallece y hubo una  pelea con su marido y este había decidido divorciarla hay quienes opinan que él no debe enlutarse por ella ya que como no la ha de heredar no se enluta… empero hay juristas que discrepan y sostienen que debe guardar luto por cuanto que aún no le entregó el divorcio y sigue siendo su esposa, y en términos generales la regla a seguir es conforme a la segunda opinión” (Yalkut Iosef, Avelut 14:21).

La segunda interrogante, respecto del no judío que desea guardar luto por su pareja judía, es más rara y particular y si bien no es función del rabino el sentenciar halajá para un no judío, por una cuestión de respeto al prójimo y evitar hostilidad hacia los judíos corresponde indicarle qué hacer, tal como lo hacían los sabios judíos principalmente en los países de oriente. El luto es un precepto y un deber tanto según la Torá como de acuerdo a las ordenanzas rabínicas. Por lo tanto, es claro que un no judío al no estar preceptuado no tiene el deber de guardar luto. Sin embargo, el luto comprende también un elemento emocional y síquico de recordar al difunto, elaborar la pérdida para poder así calmar el espíritu y poder retomar posteriormente las actividades rutinarias. La pregunta es ¿puede un no judío por propia opción guardar luto voluntariamente?

Hay casos determinados en los cuales según la halajá no es necesario guardar luto, empero, una persona puede adoptar para sí duelo parcial, esto es, rasgar su ropa y otras costumbres luctuosas como en el caso de un alumno que pierde a su maestro más significativo (Shulján Aruj Ioré Deá 374:10) o un hijo adoptado por sus padres adoptivos, un converso por sus padres bilógicos. Asimismo, la halajá reconoce que si un familiar cercano guarda luto siete días sus hijos y miembros de su familia nuclear adoptan esa semana algunas costumbres luctuosas. Según la halajá, toda persona que siente gran pesar por el fallecimiento de una persona puede guardar costumbres luctuosas (Tshuvot Vehanhagot III Ioré Deá 373 y Ramá Ioré Deá 374:6, allí dice que toda persona puede guardar costumbres luctuosas).

Por lo tanto, la semana de duelo es al mismo tiempo  un deber y una posibilidad. En algunos casos, cuando se trata de parientes cercanos en primer grado se trata de un deber y en otros, la persona puede decidir si adopta o no costumbres luctuosas por una persona cercana y querida que falleció aunque no esté formalmente obligado.

Respecto del recitado de Kadish por parte de un no judío, esto implica un problema, pues se trata de una cuestión referida a la santidad y al rezo, mediante la cual el judío santifica el Nombre de D´s. Sin embargo, en nuestro caso la pareja no judía del difunto se conformó con recitar un Salmo en su honor y todo se solucionó para beneplácito de las partes.

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[1]  Expresión talmúdica originada en el Tratado de Baba Batra 10(B) donde se relata que un sabio volvió del más allá y relató lo que vio, esto es, un mundo inverso al nuestro “los superiores abajo y los inferiores arriba” aludiendo a la valoración diferente que en el  “mundo de la verdad” se hace del quehacer humano.

¿Qué es un Templo sino una concesión de Dios a las necesidades del hombre? – Comentario a la parashá de Tetzavé

Rabino Eliahu Birnbaum

No es irrelevante, aún en épocas en que carecemos de Beit Mikdásh, estudiar las precisiones toraicas acerca de la construcción y funcionamiento del santuario. El concepto judío de lo que ha de ser un santuario está irreductiblemente emparentado con la concepción hebrea del hogar: lugar en que se ofrenda lo que se posee, espacio en que se consagra cuanto se es. A pesar de la distancia histórica y, por consiguiente, psicológica, que nos separa del Mishkán y de las regulaciones relativas a ofrendas y sacrificios, es posible y hasta necesario aprender del Mishkán, del santuario que edificaron nuestros ancestros en el desierto, infinidad de enseñanzas y valores que mantienen su vigencia intacta en nuestros días.No menos que el centro de convergencia de las ofrendas rituales, era el Mishkán fundamento de la memoria del pueblo. Un centro espiritual, cuyo propósito y misión consistían en mantener viva la conciencia del pueblo de Israel respecto de sus compromisos y obligaciones adquiridos al pie del Monte Sinai.

El Mishkán es un santuario que el pueblo lleva consigo a donde quiera que vaya. No es Dios quien lo necesita, sino los hombres; porque son ellos quienes lo construyeron como línea directa de comunicación entre lo puramente espiritual y la existencia cotidiana, humana, temporal. De algún modo, el Mishkán es una concesión de Dios a la naturaleza del hombre; es lo que el Redentor concede para que el hombre, con todas sus debilidades a cuestas, cuente con un elemento material que le recuerde sus obligaciones trascendentales.

El Mishkán incluye, a su vez, casi todos los elementos que tornan a un espacio cerrado un hogar. Una mesa, un arca o armario, un lavatorio, un candelabro…; todo, fuera de camas o artefacto alguno sobre el que reposar, es común al mobiliario de una casa y del santuario de Dios. Tal similitud tiende a revelar que toda casa, todo hogar, debe y puede -en la concepción judía- tender a igualarse con un santuario. El “ba’al habait” o dueño de casa debe intentar que su hogar tenga el grado de pureza, espiritualidad, propensión a la justicia, etc., que tenía el Mishkán, y el templo de Jerusalém, y toda edificación que se la pueda equiparar, presente o por venir. Recíprocamente la equiparación física entre el santuario y el hogar busca enseñarnos que el hombre puede y debe sentirse en el Mishkán como si fuera su propio hogar.

La ausencia de camas o elementos sujetos a similar finalidad en el Mishkán, da la impresión de que la visita de cada hombre al Mishkán es algo siempre nuevo, virgen de mácula, virginal y fermental. El dinamismo y el cambio son la única constancia aceptable frente a la expectativa perfeccionista de la permanente renovación espiritual que inspira la Torá. La cama, el sitio en que el hombre duerme, representa lo fijo e inmutable; por su parte, el Mishkán, debe ser el lugar de permanente renovación espiritual para el hombre judío.

En nuestros días, carecemos de Mishkán así como de Mikdash; no poseemos lugar alguno al que atribuir sacralidad para cumplir nuestro compromiso con el Creador. En su lugar, hemos instituido el Beit Knéset, “lugar de la congregación”, pequeño santuario en que depositamos las funciones que otrora concebimos o aceptamos para más importante destino. El Beit Knéset cumple para nosotros, la función de lugar de rezo, de estudio, de reflexión; de lugar en que sin oportunidad para el reposo debe sentirse el hombre como en su propia casa.

Lo que se dice, expresa lo que se es – Comentario a la parashá de Tazría

En muy pocas ocasiones establece la Torá una relación lineal de causalidad entre acción cometida y castigo recibido. Esta parashá nos relata sobre una epidemia de cierta variedad no clásica de la lepra, conocida en hebreo como”tsara’at”, que ataca a quienes incurren en la calumnia o la injuria (Lashón Hará).

“Tsara’at”, no es una patología física sino espiritual; es la manifestación exterior de desviaciones íntimas del individuo, de índole moral y espiritual. El individuo que calumnia o injuria está afectando y debilitando al conjunto de la sociedad, al esparcir el germen de un mal que lleva en su propio interior.

Su condena es, por consiguiente, una enfermedad física que le obliga a alejarse del campamento, del pueblo, de la sociedad, y permanecer aislado, en soledad. El castigo pretende ser un corrector: al obligársele a estar solo, se espera que el individuo comience a valorar realmente la necesidad de formar armónicamente parte de la sociedad. Y el único a quien se encomienda la curación del enfermo de tsara’at es al cohén, el sacerdote, y no al médico; con lo que se reafirma el concepto de enfermedad espiritual y de raíz no fisiológica.

De esta parashá se desprende que existe una relación profunda entre el alma y el cuerpo de la persona (Néfesh y Guf). Lo que sucede en la mente, en el pensamiento de la persona y en su boca, no son procesos aislados, sino que son parte de un todo que incluye una relación de armonía entre cuerpo y alma, entre lo espiritual y lo material.

La Torá otorga singular importancia a la palabra, base de la comunicación humana. Lo que un hombre dice alberga lo que dicho hombre es. La palabra entanto medio de comunicación, es expresión de lo que uno es. La comunicación en sí es importante, pero logra sólo una relación entre el ser humano y su prójimo; la expresión, es la comunicación con uno mismo, entre la propia persona y la esencia de su individualidad. El ser humano tiene que conocer el contenido y trasfondo de sus propias palabras e identificarse con ellas, antes de usar la palabra como un medio para comunicarse con su prójimo.

El Talmud equipara la maledicencia con el asesinato en otro plano, mucho más sutil que el físico, es posible dañar de modo irreversible a través de la palabra

Hoy, cuando se ha perdido en gran parte la valorización de la palabra, la Torá nos recuerda que es posible con el verbo crear y también matar; y que, por consiguiente, debemos procurar para la palabra el mayor respeto, para preservar la armonía y la responsabilidad en cada sociedad en que vivimos.

Cómo vivir con la cabeza en alto – Comentario a la parashá de Emor

En esta parashá se nos enseña una fórmula que recomienda el judaísmo para mantener viva la esperanza, para que el hombre no se someta a la rutina. Sobre cada persona del pueblo de Israel recae el precepto de contar cuarenta y nueve días la segunda noche de Pésaj y Shavuót, para entonces dirigirse al Templo, y presentar las ofrendas de Bikurím.

La cuenta del Omer, siete semanas que median entre Pésaj y Shavuót, tiene, por una parte, un significado práctico relacionado con la agricultura: la culminación de las siete semanas coincide con el momento de la cosecha, y es por ello que, en Shavuót, las primicias o “Bikurím” son ofrendadas en el Templo. Por otra parte, la cuenta del Omer enlaza y vincula la festividad de Pésaj con la de Shavuót, la salida de Egipto con la entrega de la Torá: “sefirát ha´omer” es, por consiguiente, símbolo del proceso ineludible que media entre la libertad física y la redención espiritual.

Aquí aprendemos que la redención espiritual no puede jamás ser instantánea; y deben mediar cuarenta y nueve días para que llegue a ser obvia su necesidad. Un pueblo no puede vivir sin una identidad cultural, sin una moral, sin leyes, sin preceptos, sin normas, sin una conciencia colectiva; elementos todos que no vienen acompañando la mera liberación física sino que requieren de una mayor elaboración interior.

La redención, simbolizada en nuestro tiempo por la venida del Mashíaj, es permanentemente una meta a alcanzar, un proceso a consumar. Como expresa el Rabino Jarlap, “tiene mayor importancia la actitud esperanzada respecto de la venida del Mashiaj, que el propio hecho de su llegada entre nosotros”. Porque la redención se construye, ante todo, en la intensidad con que la fe fija las conductas en cada uno.

La cuenta del Omer, así como la espera de la redención, son símbolos que orientan a la persona en su vida psíquica y espiritual. El hombre judío debe vivir con su cabeza en alto, con los ojos hacia adelante, con su mirada en el futuro. La obligación religiosa de contar cada día durante un período de siete semanas nos educa en la necesidad de tener esta misma actitud hacia el futuro. La esperanza con que invocamos la llegada del Mashíaj es un elemento que manifiesta nuestra perspectiva hacia el futuro de nuestro Pueblo, y de la humanidad en general.

Cuando los bajos instintos gobiernan a la razón – Comentario a la parashá de Koraj

La crisis que se desata en esta parashá es, básicamente, una crisis de autoridad. En la parashá anterior la desesperanza y la falta de fe habían determinado que la generación del desierto no entraría a la tierra de Israel, sino que vagaría durante cuarenta años por el desierto.

El liderazgo sobre todo el pueblo era ejercido personalmente por Moshé desde antes de la salida de Egipto. El pueblo no había tomado ninguna decisión por sí mismo: había sido forzado a la liberación, se le había impuesto un rol y una forma de vida, y un destino prescindente de su voluntad le había sido determinado.

Probablemente, si se le hubiera consultado previamente, el pueblo de Israel no habría dispuesto la salida de Egipto, y tampoco habría elegido a Moshé como su líder. Más aún: nada habría dispuesto y nada habría elegido. Moshé no era como ellos: no había sido esclavo; había sido criado como un príncipe en el palacio del Faraón. Su educación era correcta y respetuosa, pero autoritaria.

Moshé era desde siempre un personaje solitario. A diferencia de otros líderes posteriores como Iehoshúa o el Rey David, que fueron amados por su pueblo, Moshé era temido, respetado y generalmente obedecido; pero en su soledad y lejanía, carecía del amor de su pueblo. Había sido elegido por Dios para cumplir su rol de líder y profeta, no sólo por fuera de la voluntad de su pueblo, sino contra la suya propia.

En esta parashá la autoridad de Moshé es cuestionada por otro miembro de su propia tribu: Koraj ben Itzhar el Leví se rebela y alega que toda la congregación, todo el pueblo de Israel, está compuesto de santos y en ellos mora Dios, y “¿por qué se van a erigir en líderes sobre la congregación de Dios?”. De este modo, al cuestionar la autoridad de Moshé y Aharón, está cuestionando falazmente el propio instituto del liderazgo, al que a su vez pretende acceder. Desprestigiando la imagen de Moshé ante el pueblo, busca desacreditar los valores de la Torá.

Por otra parte, ya cuando dice que todo el pueblo está compuesto de santos comienza a distorsionar el concepto de santidad. Tal uniformidad es imposible: en el pueblo de Israel había, naturalmente, personas con distintos niveles espirituales, intelectuales y morales. Los argumentos de Koraj exhiben obscenamente una raiz de envidia y ambición de magnitud descomunal.

La Torá patrocina la discusión y la polémica, cuando ésta se realiza con franqueza y autenticidad. Hay casos célebres en el Talmud, como el de Hilel y Shamai, en que una discusión se mantiene por largos años, por generaciones inclusive, basada siempre en el respeto de la opinión contraria y en la argumentación sincera. En el caso de Koraj se observa exactamente lo contrario: argumentos antojadizos puestos al servicio de la necesidad a priori de tener la razón.

Una polémica deviene conflicto cuando una de las partes asume que tiene poder y autoridad sobre la opinión de su prójimo, cuando no está dispuesta a escuchar y dialogar; cuando una ideología se encierra en su posición, y se cierra al intercambio y la razón. Una discusión sincera permite, en cambio, realizar un enriquecedor proceso de tesis, antítesis y síntesis. Es justamente cuando una o ambas partes buscan la prevalescencia de su tesis, por razones que no hacen a la discusión en sí, y en desmedro de cualquier posibilidad de síntesis, que la discusión resulta empobrecedora y está condenada al fracaso.

En el marco de la religión la polémica es estimulada, siempre atendiendo al prójimo y nunca reaccionando con violencia. El judaísmo repudia todas las formas de violencia, y establece que ésta siempre proviene del hombre, no de situaciones que le sean impuestas. Dios expresa al pueblo de Israel: “Hijos queridos, sólo un cosa quiero pedir de ustedes: que se quieran unos a otros y que respete cada uno a su prójimo”. Esto no habla en contra de la polémica sana, pero la supedita a una actitud de respeto por parte de todos quienes participen de ella.